VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La
simbologia paterna e materna è spesso usata dalla Bibbia per
tratteggiare il volto di Dio chino sull’uomo: il testo di Isaia che
oggi leggiamo ne è una folgorante ed intensissima testimonianza.
L’inquietudine dei Giudei, deportati a Babilonia, era molto forte,
non vedevano alcuna prospettiva per il futuro e quindi si sentivano
abbandonati.
Isaia cerca di farli reagire affermando la continua presenza amorosa
di Dio che non abbandona il suo popolo. Questo amore è paragonato a
quello di una madre per i suoi bambini, infatti non c’è su questo
mondo un amore maggiore di quello di una madre per il proprio
figlio. Ma l’amore di Dio è più forte ancora. Ecco quindi la parola
di speranza, o più ancora di sicurezza, per il popolo di Israele in
esilio.
Alcuni cristiani di Corinto si vantavano di essere discepoli di
Pietro, altri di Apollo, altri di Paolo e così si provocavano le
prime divisioni nella Chiesa nascente. Ecco allora che Paolo dice
che l’annunciatore del vangelo deve essere come uno che è stato
chiamato per essere un amministratore dei misteri di Dio. Agli
amministratori si richiede solo di essere fedeli al loro mandato e
l’apostolo non ha da rimproverarsi nulla al riguardo. Il vero ed
unico giudice sia del suo operato, sia di quello degli altri, è il
Signore, solo lui può dire se davvero ha assolto il suo compito.
Ora, l’amministratore, cioè il ministro, non è un privilegiato ma un
“servo” che deve essere fedele all’incarico ricevuto. Il giudizio:
premio o condanna del ministro non sono legati al successo o al
rifiuto degli uomini ma al giudizio supremo di Dio che vede la vera
fedeltà, quella interiore.
Paolo dice: «io neppure giudico me stesso»: non riesco a valutare me
stesso, infatti anche se io non ho coscienza di nessun male, non per
questo sono giustificato, non sono nella giustizia perché non sono
consapevole di male. «Il mio giudice è il Signore», la mia giustizia
non dipende dal mio criterio di giudizio non è in base a quel che a
me sembra giusto o non giusto, buono o cattivo che dipende il mio
valore; è il Signore il mio metro di giudizio. Quindi, dice Paolo ai
Corinzi, lasciamo il giudizio al Signore e non ci soffermiamo sulla
valutazione di quello che ho fatto io, di quello che ha fatto
Apollo. Ognuno ha la sua responsabilità di fronte al Signore e
renderà conto di quello che ha fatto.
Con questa stupenda pagina del Vangelo si chiude la lettura del
Discorso della Montagna che la liturgia ci ha proposto in queste
domeniche.
Gesù si rivolge ai ricchi ed ai poveri. I primi non si lascino
soffocare dal possesso del denaro, i secondi non si preoccupino in
modo esasperato del denaro.
Il brano non insegna il disprezzo delle esigenze materiali; è
piuttosto un comando a ricercare nella vita ciò che è essenziale, a
non perdere di vista lo scopo vero di una vita che deve essere
dedicata alla conquista del regno di Dio. La preoccupazione,
l’affanno è condannata perché ostacola la nostra ricerca di Dio. Chi
si lascia divorare dalla ricerca ossessiva per il cibo, vestito,
oggetti, denaro, godimento immediato, si lega con il cuore a delle
cose che sono destinate alla morte e diventa partecipe del loro
destino; Anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai
suoi beni. «Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
Il brano è una lezione sul distacco dalle cose e dagli eventi,
illustrata con una serie di esempi di straordinaria spiritualità.
“Mammona” personifica il denaro che si pone come ostacolo
all’incontro dell’uomo con Dio. “Affannarsi” non vuol dire solo
lavorare, né essere previdente, né affaticarsi. Significa essere
nell’ansia, nell’angoscia, perennemente con il fiato sospeso, un
modo sbagliato di vivere il rapporto con Dio che tradisce una
profonda mancanza di fede.
Preoccupandosi eccessivamente, con angoscia, del futuro si aggiunge
affanno ad affanno; l’affanno di oggi non risolve il domani. Il
domani ha già la sua pena ed è solo nelle mani di Dio. Il vero
sbaglio non è nel fatto di preoccuparsi del cibo, del vestito e di
altro, ma nella illusione di garantirsi autonomamente tutto questo,
accumulando e fidandosi delle proprie forze.
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