SCHEDE DI LITURGIA

A CURA DI ANTONIO RAIA

 

IV DOMENICA DI AVVENTO

 

 

Al centro della liturgia di oggi sta la rivelazione del mistero tenuto nascosto per secoli: la manifestazione del piano salvifico che Dio ha preparato ed attuato per amore nostro.

Dopo il 740 a.C. Acaz, re di Giuda, tenta di sfuggire alla minaccia creata da una coalizione di stati vicini. La dinastia di Davide è in pericolo. Acaz non crede nell’aiuto divino, non sa che farsene di un segno del cielo. Acaz è falso e ipocrita, rinunzia, infatti, a chiedere un “segno” a Dio per dare a intendere che non dubita. “Non voglio tentare il Signore”, ma è un paravento per celare un vuoto di fede. Il segno miracoloso, infatti, lo vincolerebbe e lo comprometterebbe. Opta allora per un pretesto evasivo.
Isaia allora si irrita e in nome di Dio annuncia una promessa solenne: una vergine darà alla luce un figlio, ci sarà un erede per Davide: il suo nome Emmanuele che vuol dire: “Dio con noi” porterà la salvezza..
La tradizione cristiana ha sempre visto in questo segno una profezia messianica. L’Emmanuele è Cristo, il Messia promesso.
Ecco, quindi, ancora una volta, la dimostrazione di come il Nuovo Testamento rappresenti il compimento delle promesse contenute nell’Antico Testamento. A differenza di Acaz, che ha rifiutato il segno di Dio, Giuseppe accoglie il sorprendente annunzio dell’angelo con obbedienza e diventa così intimo collaboratore di Dio nel grande progetto dell’incarnazione. Per questo suo atteggiamento, che in ogni circostanza cerca il compimento della volontà di Dio, Giuseppe viene definito “giusto”.

La seconda lettura di oggi è il prologo della lettera di Paolo ai Romani. L’apostolo si presenta: non ha titoli personali da enumerare. Egli non esiste che all’interno del disegno di Dio che lo ha scelto.
Il Cristo, nato dalla stirpe di Davide, è il segno tangibile della fedeltà di Dio e questo ci ricollega subito alla prima lettura di oggi. Paolo presenta il“mistero” del Cristo in due tempi successivi. Prima, l’uomo Gesù, figlio di Davide, povero, umile, con alle spalle gli antenati come ogni altro uomo. Poi, il Risorto, figlio di Dio, la cui vita è ormai sovrumana, potenza stessa di Dio. Tutti noi, e ciascuno di noi, rientriamo nel progetto del Padre che si chiama Gesù Cristo, per essere santi ed annunciare al mondo la nostra fede.

Il vangelo di oggi ci annuncia che Gesù nascerà da Maria, sposa di Giuseppe, della stirpe di Davide e riprende il testo di Isaia della prima lettura di oggi. Attraverso Giuseppe le promesse divine si realizzano. Dio chiama anche Giuseppe a collaborare nell’incarnazione del Figlio, con il compito di inserire legalmente Gesù nella famiglia di Davide. Gesù, quindi, solo attraverso Giuseppe, che fisicamente non è suo padre, è giuridicamente figlio di Davide.
Giuseppe, ha troppa fiducia nella sua sposa per abbandonarla alla condanna imposta della legge se avesse dovuto reputarla adultera. Una risposta in questa impossibile situazione gli verrà dal cielo che direttamente gli fa intravedere la sua missione. Giuseppe si sottomette. E’ un uomo “giusto” perché cerca in ogni cosa il compimento della volontà di Dio. Riconosce Gesù come suo figlio e gli trasmette, imponendogli il nome, tutti i diritti di un discendente di Davide. Matteo nel vangelo ci descrive la figura di Giuseppe proprio come colui che, accettando lo sconvolgente intervento di Dio che irrompe nella sua vita, prende parte al disegno di salvezza che Dio sta operando. E’ proprio per questo egli è giusto; si ritira davanti alla grandezza del divino, ritenendosi solo “povero”. La giustizia di Dio, o giustificazione, è infatti la comunione piena con Dio, la buona relazione con Dio. Ma Dio è proprio con i “poveri” che costruisce la sua storia di salvezza e Giuseppe è così destinato ad assumere la paternità legale di Gesù.
Il problema, però, è quel termine “vergine”; che cosa vuol dire “la vergine concepirà”? Il segno è il fatto del concepimento verginale?
In ebraico, in questo versetto, viene adoperato il termine “halmà”. Questa parola indica una giovane donna, una ragazza; la connotazione della verginità non è presente, non ha nella lingua ebraica la valenza forte che ha nell’italiano il termine “vergine”. Dunque, la formula adoperata dal profeta è un formula letteraria di corte all’epoca abituale per annunciare la nascita di un erede, il termine “halmà” indica la giovane sposa del re; quindi la valenza forte non sta nella verginità, ma nell’annuncio di un figlio. Quindi Isaia, al suo tempo, quando nel 735 pronuncia questo oracolo, pensa semplicemente di garantire la nascita di un figlio al re e lo invita a dargli un nome simbolico, a chiamarlo “himmanu el”, “Dio è con noi” perché quel bambino diventi il segno della presenza di Dio. Quando la Bibbia ebraica viene tradotta in greco, dai LXX ad Alessandria d’Egitto, intorno al 3°- 2° secolo a.C., i traduttori greci traducono in questo passo la parola “halmà” con il termine greco “parthenos” che in greco vuol dire “vergine”. Questo vuol dire che i traduttori ebrei nel 200 a.C. leggono già questo testo in un’altra ottica e lo attendono come compimento futuro.


 

 

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