IV DOMENICA DI AVVENTO
Al
centro della liturgia di oggi sta la rivelazione del mistero tenuto
nascosto per secoli: la manifestazione del piano salvifico che Dio
ha preparato ed attuato per amore nostro.
Dopo il 740 a.C. Acaz, re di Giuda, tenta di sfuggire alla minaccia
creata da una coalizione di stati vicini. La dinastia di Davide è in
pericolo. Acaz non crede nell’aiuto divino, non sa che farsene di un
segno del cielo. Acaz è falso e ipocrita, rinunzia, infatti, a
chiedere un “segno” a Dio per dare a intendere che non dubita. “Non
voglio tentare il Signore”, ma è un paravento per celare un vuoto di
fede. Il segno miracoloso, infatti, lo vincolerebbe e lo
comprometterebbe. Opta allora per un pretesto evasivo.
Isaia allora si irrita e in nome di Dio annuncia una promessa
solenne: una vergine darà alla luce un figlio, ci sarà un erede per
Davide: il suo nome Emmanuele che vuol dire: “Dio con noi” porterà
la salvezza..
La tradizione cristiana ha sempre visto in questo segno una profezia
messianica. L’Emmanuele è Cristo, il Messia promesso.
Ecco, quindi, ancora una volta, la dimostrazione di come il Nuovo
Testamento rappresenti il compimento delle promesse contenute
nell’Antico Testamento. A differenza di Acaz, che ha rifiutato il
segno di Dio, Giuseppe accoglie il sorprendente annunzio dell’angelo
con obbedienza e diventa così intimo collaboratore di Dio nel grande
progetto dell’incarnazione. Per questo suo atteggiamento, che in
ogni circostanza cerca il compimento della volontà di Dio, Giuseppe
viene definito “giusto”.
La seconda lettura di oggi è il prologo della lettera di Paolo ai
Romani. L’apostolo si presenta: non ha titoli personali da
enumerare. Egli non esiste che all’interno del disegno di Dio che lo
ha scelto.
Il Cristo, nato dalla stirpe di Davide, è il segno tangibile della
fedeltà di Dio e questo ci ricollega subito alla prima lettura di
oggi. Paolo presenta il“mistero” del Cristo in due tempi successivi.
Prima, l’uomo Gesù, figlio di Davide, povero, umile, con alle spalle
gli antenati come ogni altro uomo. Poi, il Risorto, figlio di Dio,
la cui vita è ormai sovrumana, potenza stessa di Dio. Tutti noi, e
ciascuno di noi, rientriamo nel progetto del Padre che si chiama
Gesù Cristo, per essere santi ed annunciare al mondo la nostra fede.
Il vangelo di oggi ci annuncia che Gesù nascerà da Maria, sposa di
Giuseppe, della stirpe di Davide e riprende il testo di Isaia della
prima lettura di oggi. Attraverso Giuseppe le promesse divine si
realizzano. Dio chiama anche Giuseppe a collaborare
nell’incarnazione del Figlio, con il compito di inserire legalmente
Gesù nella famiglia di Davide. Gesù, quindi, solo attraverso
Giuseppe, che fisicamente non è suo padre, è giuridicamente figlio
di Davide.
Giuseppe, ha troppa fiducia nella sua sposa per abbandonarla alla
condanna imposta della legge se avesse dovuto reputarla adultera.
Una risposta in questa impossibile situazione gli verrà dal cielo
che direttamente gli fa intravedere la sua missione. Giuseppe si
sottomette. E’ un uomo “giusto” perché cerca in ogni cosa il
compimento della volontà di Dio. Riconosce Gesù come suo figlio e
gli trasmette, imponendogli il nome, tutti i diritti di un
discendente di Davide. Matteo nel vangelo ci descrive la figura di
Giuseppe proprio come colui che, accettando lo sconvolgente
intervento di Dio che irrompe nella sua vita, prende parte al
disegno di salvezza che Dio sta operando. E’ proprio per questo egli
è giusto; si ritira davanti alla grandezza del divino, ritenendosi
solo “povero”. La giustizia di Dio, o giustificazione, è infatti la
comunione piena con Dio, la buona relazione con Dio. Ma Dio è
proprio con i “poveri” che costruisce la sua storia di salvezza e
Giuseppe è così destinato ad assumere la paternità legale di Gesù.
Il problema, però, è quel termine “vergine”; che cosa vuol dire “la
vergine concepirà”? Il segno è il fatto del concepimento verginale?
In ebraico, in questo versetto, viene adoperato il termine “halmà”.
Questa parola indica una giovane donna, una ragazza; la connotazione
della verginità non è presente, non ha nella lingua ebraica la
valenza forte che ha nell’italiano il termine “vergine”. Dunque, la
formula adoperata dal profeta è un formula letteraria di corte
all’epoca abituale per annunciare la nascita di un erede, il termine
“halmà” indica la giovane sposa del re; quindi la valenza forte non
sta nella verginità, ma nell’annuncio di un figlio. Quindi Isaia, al
suo tempo, quando nel 735 pronuncia questo oracolo, pensa
semplicemente di garantire la nascita di un figlio al re e lo invita
a dargli un nome simbolico, a chiamarlo “himmanu el”, “Dio è con
noi” perché quel bambino diventi il segno della presenza di Dio.
Quando la Bibbia ebraica viene tradotta in greco, dai LXX ad
Alessandria d’Egitto, intorno al 3°- 2° secolo a.C., i traduttori
greci traducono in questo passo la parola “halmà” con il termine
greco “parthenos” che in greco vuol dire “vergine”. Questo vuol dire
che i traduttori ebrei nel 200 a.C. leggono già questo testo in
un’altra ottica e lo attendono come compimento futuro.
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