III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La
prima lettura tratta dal profeta Isaia racconta di un popolo che non
sapeva più dove andare, non vedeva più il proprio futuro e invece
adesso ha visto una grande luce, è cominciata a spuntare la luce e
il sorgere del giorno porta con se la gioia. È un grande evento, che
da speranza di avere l’indipendenza, di avere un benessere, di avere
la pace, la serenità.
La gioia che stiamo provando in questo momento, dice Isaia,
celebrando nella corte l’ascesa al trono del nuovo re, è simile alla
festa della mietitura, è simile alla festa dei cacciatori quando
tornano da una battuta di caccia. Due feste popolari, i contadini
che mietono il grano e alla fine, quando hanno terminato, fanno
festa sull’aia mentre i cacciatori fanno festa alla sera perché
hanno trovato tanta selvaggina.
È una preghiera che il profeta sta innalzando al Signore, non sta
parlando al re, sta parlando a Dio, “tu hai spezzato”, non siamo noi
con le nostre forze, con i nostri eserciti o con la nostra politica
che abbiamo salvato la situazione. Il profeta sta parlando a Dio in
modo solenne perché tutta la corte ascolti bene e capisca il
messaggio che è rivolto agli uomini di corte: “tu hai spezzato la
sbarra, il giogo, il bastone”. Sono le immagini tremende degli
strumenti di supplizio adoperati dagli Assiri per deportare i
prigionieri. Il giogo come si mette agli animali da tiro, il
bastone, la sbarra sulle spalle che viene messa tra le spalle e le
braccia in modo che il prigioniero legato in una posizione
scomodissima non possa assolutamente reagire e diventi un fantoccio
nelle mani dell’aguzzino e ha in mano il bastone e lo fa camminare
per chilometri a furia di bastonate.
L’immagine rievoca drammaticamente le scene di questi poveretti
deportati, ma adesso questa situazione è finita, Isaia preannuncia
la liberazione dei deportati: cesserà la prigionia e riprenderà la
vita, Dio interverrà facendo brillare la luce sul suo popolo.
Nella seconda lettura, dalla prima lettera ai Corinzi, Paolo difende
l’unità della Chiesa. I cristiani di Corinto, a cui Paolo si
rivolge, hanno formato dei piccoli gruppi chiusi che cercano di
stabilire la propria autorità sugli altri richiamandosi a qualche
apostolo in particolare del quale esaltano il culto della
personalità.
Così facendo, rompono l’unità della Chiesa fondata sopra l’unico
Cristo, il suo vangelo, la sua parola, la sua passione e
risurrezione. Cristo non è diviso né divisibile e, mediante il suo
unico sacrificio, ci rende una cosa sola, un solo uomo, un solo
corpo. Dividersi significa rompere l’unità da lui voluta e
distruggere il senso del suo sacrificio. Egli è morto per tutti, per
fare di tutti una sola famiglia, togliendo ogni muro di divisione
fra ebrei e gentili, formando di tutti un solo corpo.
L’ultimo versetto in cui Paolo dice di non essere stato mandato a
battezzare ma a predicare il vangelo, va compreso alla luce delle
usanze del tempo. Il conferimento del battesimo, infatti, non
richiedeva una missione speciale in colui che lo amministrava, né
una preparazione teologica particolare: ogni cristiano poteva
amministrarlo. In genere gli apostoli, come testimonia qui Paolo,
lasciavano il compito del battesimo ad altri mentre, invece, la
predicazione costituiva la missione apostolica per eccellenza.
Il brano del vangelo secondo Matteo, si ricollega alla prima lettura
di Isaia. Al tempo di Gesù la Giudea è sottomessa a tiranni politici
e religiosi e l’arresto di Giovanni Battista ne è una testimonianza.
Gesù si ritira presso le tribù di Zabulon e di Neftali in Galilea,
al nord. Una regione disprezzata dai puri perché terra di frontiera,
periferia della terra promessa, abitata da popolazioni con religioni
diverse, abbastanza tagliata fuori dal centro religioso di
Gerusalemme a dal suo tempio.
Ma è proprio lì, in osservanza alle profezie della prima lettura di
oggi, che sorge la luce di salvezza annunciata da Isaia. Alcuni
semplici pescatori hanno saputo riconoscerla. Hanno abbandonato il
loro lavoro quotidiano per mettersi al seguito di Gesù il quale li
incammina verso un mondo rinnovato di cui egli già manifesta i segni
che parlano di gioia e di salvezza.
Ecco quindi che vediamo formarsi il primo germe della Chiesa: i
primi discepoli seguono il Signore non solo per condividere la sua
intimità, ma per testimoniare lui e riunire gli uomini nel suo nome.
Inizia quindi di lì un secondo esodo, non fisico come il primo, ma
spirituale.
Il discepolo ha un compito non facile di “convertirsi”. L’essere
discepolo comporta un esodo, uno sradicarsi da una situazione
accettata, forse amata o sopportata, ma reale, per imbarcarsi in un
avventura, in un rischio con Dio. È il rischio della Fede.
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