SANTA FAMIGLIA DI GESU' MARIA E
GIUSEPPE
I DOMENICA DOPO NATALE
Mariti,
mogli e figli sono la struttura dalla famiglia e l’impegno morale
deve qualificarsi per ognuno di essi con angolature comuni e con
differenziazioni specifiche. Per essere santi, e alla santità siamo
tutti chiamati, non è, infatti, assolutamente necessario o
indispensabile fare miracoli, estraniarsi dal mondo o essere martiri
fino al sacrificio della propria vita; lo si può essere
semplicemente vivendo la vita ordinaria, di tutti i giorni, ad
imitazione di Cristo, o meglio, nel tentativo di imitazione di
Cristo. Tutto questo consiste nel portare ogni giorno la propria
croce con serenità e fede.
Nella prima lettura di oggi, l’autore sottolinea che l’onorare,
riverire, soccorrere, compatire nella vecchiaia, l’essere mossi da
rispetto e devozione verso i genitori, è compimento del volere di
Dio e ubbidienza al Signore. L’osservanza del comandamento di Dio
non solo dà lunga vita, ma è anche espiazione dei peccati e dà
sicurezza di essere ascoltati nella preghiera, di avere gioia dai
propri figli e di non essere dimenticati da Dio.
Nella famiglia ci deve essere spazio per i genitori, per i vecchi,
per i nonni, come pure per gli ammalati e per tutte le persone che
la società di oggi ritiene inutili perché non produttive.
Mariti e mogli, genitori e figli, padroni e schiavi, nell’antica
società vivevano in un rapporto di superiorità e di sottomissione.
Paolo non rovescia la struttura sociale, ma fa notare una
reciprocità di doveri facendo appello alla coscienza: la
sottomissione dei figli richiede, come contropartita, il rispetto
dei genitori verso la prole.
«Voi mogli siate sottomesse ai mariti». In questo verbo non vi è
nulla di servile, certamente esso esprime un rapporto di superiorità
sia che venga riferito al padrone o al marito, ma in quel tempo era
il marito che prendeva le decisioni familiari, sceglieva la
residenza, comandava gli schiavi, stabiliva l’educazione dei figli.
Si tratta quindi di una superiorità di responsabilità e non
giuridica e, tanto meno, di valore: il marito non vale più della
moglie. Ciò premesso, possiamo capire meglio questa seconda lettura
di oggi e l’imperativo “state sottomesse”.
Non a caso il verbo usato per le mogli è diverso da quello che
regola il rapporto genitori-figli e padroni-schiavi, che esprime
l’obbedienza. Inoltre la sottomissione richiesta alle mogli non è né
cieca, né acritica, né assoluta in quanto l’ampliamento «come
conviene nel Signore» pone un limite: se il marito esige cose che
non sono secondo giustizia, la sottomissione cessa. Il rapporto
mogli – mariti si riequilibra pienamente quando si leggono i doveri
dei mariti, una vera e propria novità per quel tempo: «amate le
vostre mogli». Il verbo greco usato, è quello dell’agàpe che non
indica l’amore-passione, ma l’amore-dono di chi apre il proprio
essere all’altro, così da realizzare l’ideale biblico di due persone
che formano un solo essere.
Si raccomanda ai mariti di non amareggiare le proprie mogli e quindi
ne consegue che la sottomissione ai mariti che amano e che si
impegnano a trattare bene le loro mogli, è un dolce legame d’amore.
Sorprendente poi è il comandamento rivolto ai “padri”. Il fatto che
ci si rivolga ai padri e non ai genitori, ricorda che l’educazione
dei figli era un compito dei padri, come già puntualizzato. La forte
raccomandazione, anzi, un vero comando, li frena dall’esasperare i
figli che sarebbero altrimenti indotti allo scoraggiamento. Anche il
rapporto padrone-schiavo deve cambiare. Il cristianesimo non si
impegna ad abbattere le strutture, però, entrando in tutta la realtà
dell’uomo, quella della sua persona, della società e dell’ambiente
familiare, lo trasforma dall’interno.
Il vangelo ci ricorda come la famiglia di Nazaret sia pienamente
inserita nella tragedia umana. I suoi membri, nell’ascolto della
voce di Dio, vivono la loro sofferenza di profughi e sinistrati.
Matteo, per meglio sottolineare che Gesù è il nuovo Mosè, colui che
sigillerà la nuova alleanza di Dio con gli uomini, insiste sulla
fuga in Egitto. Come Mosè era sfuggito al decreto dei faraoni, Gesù
sfugge ora al sanguinario Erode per recarsi in Egitto da dove,
secondo la storia e le profezie, partì il nuovo popolo strappato
alla schiavitù, della quale l’Egitto è il simbolo. Mosè nell’Esodo
esce dall’Egitto e libera il suo popolo dalla schiavitù; Gesù parte
dall’Egitto e libera il suo popolo dalla schiavitù del peccato.
In queste vicende ci viene presentato un padre al servizio del piano
di Dio su Gesù, Giuseppe, il padre modello della Santa Famiglia, è
solo il custode del bambino e, come padre legale, ne è responsabile
davanti a Dio e mette la famiglia in salvo.
Secondo gli schemi biblici il sogno non è un vaneggiare
dell’inconscio come nella nostra mentalità; nella cultura semitica
esso è il luogo di incontro con Dio, è il simbolo delle grandi
rivelazioni. E’ il mezzo che Dio usa per parlare a Giuseppe che si
dimostra sempre disponibile e premuroso.
Pronta è la risposta di Giuseppe all’interpellanza di Dio, e questo
nucleo di persone, perseguitato e misero, che ripercorre le vicende
dell’Esodo, riassume in sé, proprio per il legame con Gesù, le
vicende di dolore, di sofferenza e di fatiche del popolo di Israele
e di tutta l’umanità.
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