XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La
prima lettura di oggi è tratta dal libro del profeta Malachia (= mio
messaggero) che svolse il suo ministero dopo la ricostruzione del
secondo tempio, cioè dopo il 515 a.C.
La comunità ebraica è rimpatriata da Babilonia, ed ha ricostruito il
tempio di Gerusalemme. Dopo circa 50 anni la religione comincia ad
essere trascurata, non si pagano più le decime, si sposano le
straniere, si divorzia, essa non è più forza di vita. Lo spirito
sacerdotale è in decadenza e così pure la morale sociale. I leviti
(sacerdoti) svolgevano il loro ufficio con negligenza offrendo a Dio
sacrifici impuri; i fedeli trascuravano di dare ai leviti le decime
prelevati sui proventi del suolo. Malachia si scaglia con veemenza
contro i sacerdoti e lancia un vigoroso appello: il popolo deve
continuare a volgersi con fiducia verso il futuro, verrà infatti il
giorno del Signore, il giorno del giudizio nel quale, mentre per gli
empi ci sarà la condanna, per i giusti sorgerà il sole di giustizia
e loro saranno i veri e definitivi vincitori. Per diffusione di
violenza e malizia, i buoni erano in preda alla sfiducia e allo
scetticismo; si pensava che Dio avesse abbandonato il suo popolo e
che era inutile servire il Signore poiché trionfavano i superbi che
rimanevano impuniti. Alla reazione dei fedeli scandalizzati dalla
felicità degli arroganti, Malachia replica affermando che tutto è
scritto nel libro della storia, conservato in attesa del “giorno”
per eccellenza, quello del giudizio di Dio, l’atteso momento
escatologico. Il “giorno del Signore” è l’evento decisivo e
risolutivo della storia umana in cui Dio instaura il suo regno di
giustizia e di pace in un mondo rinnovato. Le prospettive attuali
che celebrano i ricchi, i potenti, i superbi, saranno totalmente
ribaltate e la vera beatitudine sarà destinata a coloro che hanno
“timore del mio nome”: i poveri, gli affamati, i sofferenti, i
perseguitati.
Nella seconda lettura Paolo combatte contro la falsa predicazione
dell’imminente venuta del Signore, la parusia, che aveva creato
negli sfaccendati un alibi abbastanza solido per vivere oziosamente
alle spalle degli altri: non c’è bisogno di lavorare, bisogna solo
attendere la fine. Paolo protesta, egli insegna, con il suo esempio,
che il cristiano non mangia gratuitamente il pane, non vive
oziosamente. I cristiani devono essere di esempio, e dunque Paolo fa
un rigoroso appello all’impegno e al lavoro. Polemizza duramente con
quelli che con l’alibi dell’imminente ritorno di Cristo, “vivono una
vita disordinata, senza far nulla e sempre in agitazione”.
Paolo vuole che un predicatore, un pastore, possa accettare la
condizione di “sostenuto dalla comunità”, ma solo in casi
eccezionali. Era consuetudine e dovere dare vitto e alloggio ai
predicatori, ma Paolo di questo suo diritto non volle mai
approfittare, perché lavorare è un segno di serietà e onestà,
inoltre è anche un segno di distinzione rispetto ai molti falsi
profeti e predicatori che, approfittando della semplicità e fiducia
delle persone, si facevano mantenere.
Nel vangelo di oggi, Luca ci racconta la profezia di Gesù sulla
distruzione del tempio e i discepoli vorrebbero sapere quando questi
fatti avverranno. Gesù vede nel rifiuto delle autorità giudaiche
opposto al suo messaggio, la sorte terribile che attende la città
santa, vede in questo rifiuto il segno della rovina della nazione ed
annuncia la distruzione del tempio. Egli descrive tale sorte per
dare un avvertimento; prevede anche un tempo nuovo e difficile:
quello della missione della Chiesa, pieno di difficoltà e lotte. La
solidità della Chiesa, in mezzo all’insicurezza del mondo, è una
testimonianza e una conseguenza della verità di Gesù Cristo. Resterà
sempre la sicurezza della parola di Gesù: “Nemmeno un capello del
vostro capo perirà”.
Quello di Luca è un linguaggio del genere apocalittico, dove alcune
realtà e i fenomeni naturali come tempeste, terremoti, fuoco,
pestilenze e quant’altro, sono ingigantiti per incutere un certo
grado di timore. È un linguaggio in uso in quel tempo. Però il Regno
di Dio non è in nessuno di quegli avvenimenti imponenti e
terrificanti, non è né nel vento impetuoso e gagliardo, né nel
terremoto o nel fuoco e nemmeno nella tempesta, il Signore lo
incontri nell’esperienza della fraternità, dell’accoglienza, che è
l’esperienza della chiesa. Questo perché il regno di Dio è già tra
noi, ce lo ha portato Gesù Cristo con la sua passione e morte e
ritorna vivo e presente tra noi ad ogni celebrazione eucaristica con
la quale Cristo è presente in mezzo a noi che con l’eucaristia
partecipiamo di Lui. Ecco così che le ultime parole del vangelo di
oggi ci dicono come fare per essere già oggi nel Regno dei cieli e
non temere né gli eventi tragici della natura, né il giudizio del
giorno del Signore: “con la vostra perseveranza salverete le vostre
anime”, è in questo modo che il nostro rapporto d’amicizia con Dio
rimarrà sempre inalterato e non avremo timore del giudizio.
Il discorso di Luca serve a dirci questo, che c’è una cosa sola che
conta nella vita del cristiano: la venuta di Cristo, un Padre che ci
ama, e ci ama a tal punto da cambiare nostra vita e da farla
diventare qualcosa di qualitativamente nuovo. Ecco allora che non ci
sarà nessuno e nessun segno che potrà essere il segno liberatore.
Gesù lo dice in maniera molto chiara: non fidatevi di chi dice:
“sono io”, di chi vuole presentarsi come il nuovo messia, il nuovo
“dio-con-noi” e non fidatevi di tutti gli allarmi che vengono dati.
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