SCHEDE DI LITURGIA

A CURA DI ANTONIO RAIA

 

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 

 

La prima lettura di oggi ci dice che Dio ascolta l’appello del povero, di colui che la società disprezza, sacrifica e sfrutta. La voce del povero che si presenta a Dio privo di offerte materiali ed in piena umiltà può penetrare le nubi ed avere più valore di quella del ricco che, con offerte abbondanti, in un certo qual modo esige da Dio. Dio è giudice giusto e imparziale, Egli non accetta gesti esteriori e ipocriti di penitenza quando essi tentano di celare l’ingiustizia perpetrata nei confronti dei poveri e degli oppressi. La preghiera dell’umile e del giusto è il messaggio più vivo che l’umanità possa indirizzare al cuore di Dio, per questo il Signore non tarderà ad ascoltare la loro voce e ad intervenire. Il ricco deve dare con gioia al Signore, per il povero, l’umile, basta la preghiera anche senza offerta. Ciò che conta è la disposizione dell’animo alla carità, non l’entità dell’offerta.

La seconda lettura rappresenta il testamento spirituale di Paolo, il quale sente ormai vicina la morte, è abbandonato da tutti; come Cristo è un fallimento umano. Ad imitazione di Cristo perdona chi lo ha abbandonato e tradito; non ha però perduto nulla della sua fede, della sua fiducia, della sua audacia di parlare in ogni occasione. Paolo si sente solo con il Signore ed il suo sguardo resta fisso a lui per annunziare fino all’ultimo il vangelo di salvezza e per entrare finalmente nel suo Regno. Paolo, come qualsiasi uomo e qualsiasi cristiano, teme la morte, ma, di fronte ad essa, assume un atteggiamento di serena fiducia che nasce dalla sua profonda fede, dal pensiero d’aver combattuto una buona battaglia e dalla speranza della ricompensa. Paolo ha finito la sua corsa, ha conservato la Fede, è rimasto solo, abbandonato dagli uomini, gli è rimasto vicino solo Dio. Ma la sua fiducia non è nelle opere che ha compiuto, ma nell’efficacia salvifica della grazia di Cristo a cui va “la gloria nei secoli dei secoli”. Quello che più impressiona in questo brano è la tranquillità con la quale Paolo si avvicina alla morte, solo la sicurezza intima, certa, della sua fede glielo può permettere. Sembra quasi un presuntuoso quando dice “Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede”, ma è solo la sicurezza di chi ha avuto un rapporto privilegiato con Dio che lo spinge a fare questa affermazione.

La parabola dal vangelo di oggi è quella del fariseo e del pubblicano in preghiera al tempio. Il fariseo manifesta uno spirito di sacrificio spinto all’estremo e merita perciò la considerazione degli uomini. Da Dio non attende né grazia né perdono, ma la giusta retribuzione del suo sforzo costante e minuzioso. La sua preghiera è un rendimento di grazie e, ancora secondo la legge, è fatta in piedi. In realtà il suo è un pretesto per lodare se stesso e non Dio, un compiacersi di sé per la mancanza di ogni peccato, un esigere quindi da Dio una ricompensa.
Il pubblicano è un esattore delle imposte al servizio della potenza occupante. Alla sua epoca i suoi metodi gli assicuravano una giusta reputazione di ladro. Davanti a Dio la situazione è senza speranza, non può che implorare pietà.
Gesù non critica lo sforzo ascetico del fariseo, ma la sua sufficienza davanti a Dio e la sua durezza verso gli altri. Gesù non approva il comportamento quotidiano del pubblicano, ma propone ad esempio il suo atteggiamento di sincerità, umiltà e pentimento.
Il fariseo non otterrà la salvezza perché pensa di meritarla, e infatti nemmeno la chiede; il pubblicano, invece, la otterrà perché crede che essa possa essere unicamente dono gratuito di Dio.
In questa parabola è già delineato il tema paolino della giustificazione mediante la fede. E’ necessario che la preghiera penetri fino alle profondità dell’anima e sia radicalmente sincera, questo è il tema della parabola di oggi.
Il fariseo non ha cercato Dio, ma la propria grandezza e si contenta e loda della sua perfezione umana. Il pubblicano, invece, sale a Dio e si scopre sprofondato nella miseria: ha bisogno di uscire dal suo peccato e chiede angosciosamente l’aiuto di Dio, cerca forza e salvezza sul suo cammino. In questo momento cessa d’avere importanza il suo passato di peccatore, quello che è importante è che alza le sue mani verso Dio e implora la sua benedizione, chiede il suo aiuto, lì si realizza la vera preghiera.
Sicuramente il fariseo ha osservato con esattezza tutte le prescrizioni della tradizione sacra di Israele, la sua preghiera è ineccepibile formalmente, anzi contiene l’elenco dei meriti di una esistenza corretta e rispettata. La radice di questa preghiera è la giustizia dell’uomo. Un uomo che è fermamente convinto che la bilancia dei pagamenti con Dio penda indubbiamente a suo favore: paga le decime anche sui dettagli, non digiuna solo un giorno alla settimana, come prescrive la legge, ma due. E’ insomma il vero modello dell’uomo di religione osservante, perfetto, sicuro di sé. L’arroganza della sua preghiera è tale, però, da condannare gli altri. Il pubblicano, invece, è un uomo che non sa di purità né di formule rituali, la sua vita è intrisa di peccato, e non è in grado di presentare a Dio nessun merito e nessun vantaggio, però, giunto fino al fondo di se stesso, lascia che Dio lo illumini e lo trasformi. La sua umiltà è la forza della sua preghiera, una umiltà vera.
 


 

 

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