XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La
prima lettura di oggi ci dice che Dio ascolta l’appello del povero,
di colui che la società disprezza, sacrifica e sfrutta. La voce del
povero che si presenta a Dio privo di offerte materiali ed in piena
umiltà può penetrare le nubi ed avere più valore di quella del ricco
che, con offerte abbondanti, in un certo qual modo esige da Dio. Dio
è giudice giusto e imparziale, Egli non accetta gesti esteriori e
ipocriti di penitenza quando essi tentano di celare l’ingiustizia
perpetrata nei confronti dei poveri e degli oppressi. La preghiera
dell’umile e del giusto è il messaggio più vivo che l’umanità possa
indirizzare al cuore di Dio, per questo il Signore non tarderà ad
ascoltare la loro voce e ad intervenire. Il ricco deve dare con
gioia al Signore, per il povero, l’umile, basta la preghiera anche
senza offerta. Ciò che conta è la disposizione dell’animo alla
carità, non l’entità dell’offerta.
La seconda lettura rappresenta il testamento spirituale di Paolo, il
quale sente ormai vicina la morte, è abbandonato da tutti; come
Cristo è un fallimento umano. Ad imitazione di Cristo perdona chi lo
ha abbandonato e tradito; non ha però perduto nulla della sua fede,
della sua fiducia, della sua audacia di parlare in ogni occasione.
Paolo si sente solo con il Signore ed il suo sguardo resta fisso a
lui per annunziare fino all’ultimo il vangelo di salvezza e per
entrare finalmente nel suo Regno. Paolo, come qualsiasi uomo e
qualsiasi cristiano, teme la morte, ma, di fronte ad essa, assume un
atteggiamento di serena fiducia che nasce dalla sua profonda fede,
dal pensiero d’aver combattuto una buona battaglia e dalla speranza
della ricompensa. Paolo ha finito la sua corsa, ha conservato la
Fede, è rimasto solo, abbandonato dagli uomini, gli è rimasto vicino
solo Dio. Ma la sua fiducia non è nelle opere che ha compiuto, ma
nell’efficacia salvifica della grazia di Cristo a cui va “la gloria
nei secoli dei secoli”. Quello che più impressiona in questo brano è
la tranquillità con la quale Paolo si avvicina alla morte, solo la
sicurezza intima, certa, della sua fede glielo può permettere.
Sembra quasi un presuntuoso quando dice “Ho combattuto la buona
battaglia, ho conservato la fede”, ma è solo la sicurezza di chi ha
avuto un rapporto privilegiato con Dio che lo spinge a fare questa
affermazione.
La parabola dal vangelo di oggi è quella del fariseo e del
pubblicano in preghiera al tempio. Il fariseo manifesta uno spirito
di sacrificio spinto all’estremo e merita perciò la considerazione
degli uomini. Da Dio non attende né grazia né perdono, ma la giusta
retribuzione del suo sforzo costante e minuzioso. La sua preghiera è
un rendimento di grazie e, ancora secondo la legge, è fatta in
piedi. In realtà il suo è un pretesto per lodare se stesso e non
Dio, un compiacersi di sé per la mancanza di ogni peccato, un
esigere quindi da Dio una ricompensa.
Il pubblicano è un esattore delle imposte al servizio della potenza
occupante. Alla sua epoca i suoi metodi gli assicuravano una giusta
reputazione di ladro. Davanti a Dio la situazione è senza speranza,
non può che implorare pietà.
Gesù non critica lo sforzo ascetico del fariseo, ma la sua
sufficienza davanti a Dio e la sua durezza verso gli altri. Gesù non
approva il comportamento quotidiano del pubblicano, ma propone ad
esempio il suo atteggiamento di sincerità, umiltà e pentimento.
Il fariseo non otterrà la salvezza perché pensa di meritarla, e
infatti nemmeno la chiede; il pubblicano, invece, la otterrà perché
crede che essa possa essere unicamente dono gratuito di Dio.
In questa parabola è già delineato il tema paolino della
giustificazione mediante la fede. E’ necessario che la preghiera
penetri fino alle profondità dell’anima e sia radicalmente sincera,
questo è il tema della parabola di oggi.
Il fariseo non ha cercato Dio, ma la propria grandezza e si contenta
e loda della sua perfezione umana. Il pubblicano, invece, sale a Dio
e si scopre sprofondato nella miseria: ha bisogno di uscire dal suo
peccato e chiede angosciosamente l’aiuto di Dio, cerca forza e
salvezza sul suo cammino. In questo momento cessa d’avere importanza
il suo passato di peccatore, quello che è importante è che alza le
sue mani verso Dio e implora la sua benedizione, chiede il suo
aiuto, lì si realizza la vera preghiera.
Sicuramente il fariseo ha osservato con esattezza tutte le
prescrizioni della tradizione sacra di Israele, la sua preghiera è
ineccepibile formalmente, anzi contiene l’elenco dei meriti di una
esistenza corretta e rispettata. La radice di questa preghiera è la
giustizia dell’uomo. Un uomo che è fermamente convinto che la
bilancia dei pagamenti con Dio penda indubbiamente a suo favore:
paga le decime anche sui dettagli, non digiuna solo un giorno alla
settimana, come prescrive la legge, ma due. E’ insomma il vero
modello dell’uomo di religione osservante, perfetto, sicuro di sé.
L’arroganza della sua preghiera è tale, però, da condannare gli
altri. Il pubblicano, invece, è un uomo che non sa di purità né di
formule rituali, la sua vita è intrisa di peccato, e non è in grado
di presentare a Dio nessun merito e nessun vantaggio, però, giunto
fino al fondo di se stesso, lascia che Dio lo illumini e lo
trasformi. La sua umiltà è la forza della sua preghiera, una umiltà
vera.
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