XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La
prima lettura di oggi è del profeta Abacuc, siamo intorno al 600 a.
C., un momento storicamente triste per Israele che sta per essere
sconfitto dai Caldei. Certamente Israele ha meritato una punizione,
ma i nemici non sono migliori, anzi sono peggiori del popolo eletto.
Non può il Dio santo e giusto permettere che pagani ancora più
corrotti del suo popolo abusino della loro superiorità. Il profeta,
angosciato davanti al trionfo dell’empietà e dell’ingiustizia, si
lamenta con Dio perché gli sembra indifferente di fronte alla triste
situazione, ed espone le miserie di cui soffre. Egli si lamenta a
nome del suo popolo, diventa il portavoce di tutte le ingiustizie
che vede nel popolo e sollecita il suo intervento, gli chiede “fino
a quando” sarebbe rimasto sordo alle grida di coloro che sono
sfruttati ed oppressi ingiustamente. Il Signore allora gli risponde
di stare tranquillo ed avere pazienza perché la punizione verrà solo
per il cattivo; Dio promette la salvezza a coloro che credono
fermamente che lui salverà Israele. Il superbo che vuole dominare
perderà la vita ed il giusto vivrà.
La seconda lettura è un’esortazione a lottare coraggiosamente per il
vangelo. Paolo, con l’imposizione delle mani, aveva scelto Timoteo,
suo importante collaboratore, ad evangelizzare e gli aveva conferito
dei poteri sulla Chiesa. Lo Spirito che ha reso Paolo e Timoteo
ministri del vangelo non è uno spirito di timidezza, ma di forza che
deve portarlo a non vergognarsi né del Signore né delle catene di
Paolo, ma a soffrire anche lui della croce di Cristo. Modello del
suo agire devono essere gli insegnamenti di Paolo e la fede in
Cristo. “Custodire il buon deposito” significa conservare intatta la
fede in Cristo risuscitato.
Paolo insiste, come sempre, sull’origine soprannaturale della sua
vocazione: egli è apostolo “per volontà di Dio”. L’imposizione delle
mani trasmetteva a Timoteo “un dono di Dio”: non si trattava di
“timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”. Probabilmente,
l’ambiente della comunità di Timoteo è dominato dal timore per le
nascenti persecuzioni delle quali già cominciava ad essere vittima
il cristianesimo dei primi tempi. Per questo, Paolo ricorda a
Timoteo: “non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore
nostro né di me, che sono in carcere per lui”. A quel tempo la
proclamazione del vangelo era considerata dalle autorità imperiali
romane un atto sovversivo. Dunque Paolo raccomanda al suo discepolo
di “custodire la fede”.
Nel vangelo di Luca, Gesù, provocato da una preghiera dei discepoli:
“Aumenta la nostra fede”, risponde con un argomento irreale per far
capire che la vera fede è capace di sconvolgere il mondo rovesciando
il corso attuale delle cose.
La seconda parte del brano spiega che ciò che è impensabile per gli
uomini è possibile nel regno di Dio e che il cristiano non deve
vantarsi quando ha fatto il suo dovere. La fede infatti è un dono
gratuito perciò il credente che agisce correttamente secondo la sua
fede non ha mai ragione di vantarsene, ha solo fatto il suo dovere e
neppure ha ragione di mettere questa sua fede orgogliosamente in
mostra. Questo è indirizzato ai farisei ed a molti uomini religiosi
che sono preoccupati della loro ricompensa e calcolano tutti i loro
diritti e meriti che hanno di fronte a Dio. I loro conti però non
saranno convalidati perché in essi non è l’amore e la carità che
agisce, ma il calcolo. La fede non consiste tanto in una adesione
intellettuale ad una serie di verità astratte, ma è l’adesione
incondizionata ad una persona, a Dio, che ci propone di ricambiare
il suo amore e quello di Cristo morto e risorto per noi.
La risposta di Gesù alla domanda “aumenta la nostra fede” non è
quella che vorrebbero i discepoli, la fede infatti la si ha o non si
ha e quindi Gesù non risponde perché la domanda è impropria. La fede
non si misura in quantità, la sua caratteristica è qualitativa, non
quantitativa.
Gesù presenta una situazione assurda per far capire ai discepoli
l’improponibilità della domanda; la vita cristiana non è questione
di quantità, ma di qualità di vita, di impostazione di base, di
senso della vita. Chi vive nella fede non ha bisogno di trasportare
le montagne, in fondo ha già trasportato tutto e vede le cose al
loro giusto posto, là dove Dio le ha messe al servizio degli uomini.
La fede è una risposta d’amore ad un atto d’amore ricevuto. La
parabola vuole descrivere il comportamento dell’uomo verso Dio, che
dovrebbe essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza
pretese, senza contratti. Non si serve il Vangelo con lo spirito del
salariato: tanto ho fatto, tanto mi spetta e ci si presenta a Dio
con il contratto in mano (atteggiamento del fariseo al tempio). Gesù
vuole che i suoi discepoli affrontino coraggiosamente e in piena
disponibilità le esigenze del Regno come in un profondo e vero
rapporto d’amore nel quale il completo dono di sé diventa “gioia”,
non fatica, senza ricerca di ricompensa perché essa si è già
concretizzata nella gioia del dono e nel piacere di realizzare la
felicità della persona amata. In un vero rapporto d’amore la ricerca
del dono è continua, incessante e annulla la fatica. In ogni momento
obbedire all’amore non è fatica, ma piacere, gradita necessità che
annulla ogni peso, ostacolo o difficoltà; in questa ottica si
realizza il giusto rapporto con Dio.
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