SCHEDE DI LITURGIA

A CURA DI ANTONIO RAIA

 

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 

 

La prima lettura di oggi è del profeta Abacuc, siamo intorno al 600 a. C., un momento storicamente triste per Israele che sta per essere sconfitto dai Caldei. Certamente Israele ha meritato una punizione, ma i nemici non sono migliori, anzi sono peggiori del popolo eletto. Non può il Dio santo e giusto permettere che pagani ancora più corrotti del suo popolo abusino della loro superiorità. Il profeta, angosciato davanti al trionfo dell’empietà e dell’ingiustizia, si lamenta con Dio perché gli sembra indifferente di fronte alla triste situazione, ed espone le miserie di cui soffre. Egli si lamenta a nome del suo popolo, diventa il portavoce di tutte le ingiustizie che vede nel popolo e sollecita il suo intervento, gli chiede “fino a quando” sarebbe rimasto sordo alle grida di coloro che sono sfruttati ed oppressi ingiustamente. Il Signore allora gli risponde di stare tranquillo ed avere pazienza perché la punizione verrà solo per il cattivo; Dio promette la salvezza a coloro che credono fermamente che lui salverà Israele. Il superbo che vuole dominare perderà la vita ed il giusto vivrà.

La seconda lettura è un’esortazione a lottare coraggiosamente per il vangelo. Paolo, con l’imposizione delle mani, aveva scelto Timoteo, suo importante collaboratore, ad evangelizzare e gli aveva conferito dei poteri sulla Chiesa. Lo Spirito che ha reso Paolo e Timoteo ministri del vangelo non è uno spirito di timidezza, ma di forza che deve portarlo a non vergognarsi né del Signore né delle catene di Paolo, ma a soffrire anche lui della croce di Cristo. Modello del suo agire devono essere gli insegnamenti di Paolo e la fede in Cristo. “Custodire il buon deposito” significa conservare intatta la fede in Cristo risuscitato.
Paolo insiste, come sempre, sull’origine soprannaturale della sua vocazione: egli è apostolo “per volontà di Dio”. L’imposizione delle mani trasmetteva a Timoteo “un dono di Dio”: non si trattava di “timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”. Probabilmente, l’ambiente della comunità di Timoteo è dominato dal timore per le nascenti persecuzioni delle quali già cominciava ad essere vittima il cristianesimo dei primi tempi. Per questo, Paolo ricorda a Timoteo: “non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro né di me, che sono in carcere per lui”. A quel tempo la proclamazione del vangelo era considerata dalle autorità imperiali romane un atto sovversivo. Dunque Paolo raccomanda al suo discepolo di “custodire la fede”.

Nel vangelo di Luca, Gesù, provocato da una preghiera dei discepoli: “Aumenta la nostra fede”, risponde con un argomento irreale per far capire che la vera fede è capace di sconvolgere il mondo rovesciando il corso attuale delle cose.
La seconda parte del brano spiega che ciò che è impensabile per gli uomini è possibile nel regno di Dio e che il cristiano non deve vantarsi quando ha fatto il suo dovere. La fede infatti è un dono gratuito perciò il credente che agisce correttamente secondo la sua fede non ha mai ragione di vantarsene, ha solo fatto il suo dovere e neppure ha ragione di mettere questa sua fede orgogliosamente in mostra. Questo è indirizzato ai farisei ed a molti uomini religiosi che sono preoccupati della loro ricompensa e calcolano tutti i loro diritti e meriti che hanno di fronte a Dio. I loro conti però non saranno convalidati perché in essi non è l’amore e la carità che agisce, ma il calcolo. La fede non consiste tanto in una adesione intellettuale ad una serie di verità astratte, ma è l’adesione incondizionata ad una persona, a Dio, che ci propone di ricambiare il suo amore e quello di Cristo morto e risorto per noi.
La risposta di Gesù alla domanda “aumenta la nostra fede” non è quella che vorrebbero i discepoli, la fede infatti la si ha o non si ha e quindi Gesù non risponde perché la domanda è impropria. La fede non si misura in quantità, la sua caratteristica è qualitativa, non quantitativa.
Gesù presenta una situazione assurda per far capire ai discepoli l’improponibilità della domanda; la vita cristiana non è questione di quantità, ma di qualità di vita, di impostazione di base, di senso della vita. Chi vive nella fede non ha bisogno di trasportare le montagne, in fondo ha già trasportato tutto e vede le cose al loro giusto posto, là dove Dio le ha messe al servizio degli uomini. La fede è una risposta d’amore ad un atto d’amore ricevuto. La parabola vuole descrivere il comportamento dell’uomo verso Dio, che dovrebbe essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti. Non si serve il Vangelo con lo spirito del salariato: tanto ho fatto, tanto mi spetta e ci si presenta a Dio con il contratto in mano (atteggiamento del fariseo al tempio). Gesù vuole che i suoi discepoli affrontino coraggiosamente e in piena disponibilità le esigenze del Regno come in un profondo e vero rapporto d’amore nel quale il completo dono di sé diventa “gioia”, non fatica, senza ricerca di ricompensa perché essa si è già concretizzata nella gioia del dono e nel piacere di realizzare la felicità della persona amata. In un vero rapporto d’amore la ricerca del dono è continua, incessante e annulla la fatica. In ogni momento obbedire all’amore non è fatica, ma piacere, gradita necessità che annulla ogni peso, ostacolo o difficoltà; in questa ottica si realizza il giusto rapporto con Dio.
 

 

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