SCHEDE DI LITURGIA

A CURA DI ANTONIO RAIA

 

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 

Il popolo di Israele, che per generazioni e generazioni ha vissuto sotto le tende come nomade, ora entra in un periodo di stabilità ed alcuni si arricchiscono. Amos, il profeta contadino, venuto dal regno di Giuda, rimane sdegnato alla scoperta della miseria a fianco di un lusso sfrenato, nel regno di Israele.

In un’era di pace e di prosperità questo profeta disturba perché annunzia alle tribù di Israele, a motivo della loro infedeltà a Dio e delle gravi ingiustizie sociali, l’imminente catastrofe nazionale seguita da un duro esilio. Questi nuovi ricchi non si rendono conto che camminano verso la catastrofe e Amos parla contro di essi in nome di Dio minacciando il castigo ed infatti presto la Samaria sarà distrutta, perché su tutte queste vergogne incombe il giudizio di Dio che non può restare indifferente davanti all’ingiustizia.

La ricchezza, l’egoismo, la vita mondana, l’adorazione del successo, la corruzione, estinguono nell’uomo non solo ogni possibilità di fede, ma anche ogni capacità di comprensione e di intelligenza umana.

Pochi anni dopo questo grido di denuncia di Amos, le armate assire demolivano interamente la Samaria e trascinavano i suoi abitanti in esilio nella Mesopotamia; si verificava così il “Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti”.

 

Nella seconda lettura Paolo fa il punto su quale debba essere l’elevatezza morale dei veri discepoli di Cristo che Timoteo, quale vescovo, deve rendere esemplare nella propria esistenza e con il proprio comportamento. Come campione di quella fede di cui ha fatto professione, egli deve conservare intatta tutta la somma dei precetti che regolano la vita cristiana. Osservare il comandamento e cioè conservare la dottrina e la volontà di Cristo senza cedimenti: questo è il dovere di vigilanza da parte dei Pastori che sarà sempre necessario fino alla manifestazione di Gesù che Dio farà avvenire nel tempo stabilito. Per vivere di essa, è indispensabile non cadere nella tentazione della cupidigia, radice di tutti i mali. Timoteo è poi esortato a conservare quel volto di “pastore buono” che promise solennemente di conservare all’atto della sua consacrazione al ministero. La sua posizione richiede una consacrazione totale a Dio e una perfetta testimonianza a Cristo, a partire dalla consapevolezza, attraverso la fede, della rivelazione futura del Dio invisibile in Gesù.

 

La parabola del vangelo di oggi descrive la situazione di colui che non ha messo in pratica l’insegnamento offerto dalla parola di Dio. Questa parabola non va intesa con la chiave di lettura del principio del contrappasso per cui chi qui ha goduto, nell’aldilà deve soffrire e viceversa; è invece la precisazione su un tipo di comportamento, quello del ricco, che non vede le necessità altrui anche se l’ha sotto gli occhi tutti i giorni. Egli è tanto occupato nei suoi piaceri e nel raggiungimento delle proprie soddisfazioni esclusivamente terrene che non si accorge del mondo che lo circonda, del prossimo più vicino.

Gesù sta parlando del ricco e del povero ma vuole arrivare ad un punto ben preciso e queste due figure diventano due simboli molto forti. La parabola, infatti, presenta il ricco e il povero come due figure fortemente contrastanti: il ricco gaudente la cui principale, se non esclusiva, occupazione sembra essere quella di godere della sua ricchezza nuotando nell’abbondanza e nei piaceri e il povero Lazzaro che invece muore nell’indigenza, debole, ammalato, incapace persino di scacciare i cani (considerati impuri) randagi che gli danno fastidio. Il centro della parabola non è però in questa differenza di situazione, bensì nel fatto che il povero e il ricco sono vicini, ma il ricco non si accorge del povero, proprio non lo vede. Il ricco non osteggia Dio e non opprime il povero, semplicemente non vede né Dio né il povero. È questo il grave pericolo della ricchezza ed è questa, forse, la principale lezione della parabola.

La seconda polemica è nel fatto che, mentre molti pensavano che la ricchezza fosse segno della benevolenza divina, Gesù non è di questa opinione; egli sa che Dio prende le difese dei diseredati. Appaiono alla fine i due fratelli: è proprio il loro vivere da ricchi che li rende ciechi di fronte al povero così vicino e di fronte alle Scritture così chiare e conosciute.

Nel linguaggio di allora “il seno di Abramo” è un’espressione che indicava il posto di onore nel convito celeste. Ogni israelita infatti desiderava ardentemente riposare, dopo la morte, accanto ai Padri. Dei due personaggi solo uno ha nome: Lazzaro. Il ricco, pur essendo il protagonista del racconto, non ha nome; non importa chi fosse, è solo il simbolo di una categoria di persone, il simbolo dell’uomo chiuso dentro se stesso e di lui è solo detto che fu sepolto. Lazzaro è invece un simbolo positivo perché nella sua condizione di sofferenza non può far altro che sperare nella misericordia, non può far altro che attendere che ci sia qualcun altro che lo aiuti e lo tiri fuori dalla sua situazione. Il ricco, al contrario, diventa l’immagine opposta, quella dell’uomo contento, sazio, che vive quasi in un continuo banchetto e quando l’uomo sazia tutti i suoi desideri terreni non c’è più posto per Dio, per il desiderio e il pensiero di lui.

 

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