XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
La
liturgia di questa domenica è un canto all’universalità della
salvezza, all’infinità dell’amore di Dio che non conosce barriere
razziali, politiche, sociali, economiche e alla misteriosa ricchezza
nascosta nel cuore di ogni uomo giusto. Il regno è simboleggiato da
un banchetto, un luogo di incontro e di comunione, come spesso si
legge nelle pagine bibliche. Ci è offerto, siamo tutti invitati, è
un dono gratuito ma deve essere accolto.
Nella prima lettura ascoltiamo Isaia che tenta di risvegliare il
coraggio descrivendo l’avvenire glorioso del popolo eletto.
L’avvento messianico segnerà la riunione di tutti i popoli nel
tempio del vero Dio e l’esclusivismo giudaico sarà totalmente
superato, infatti la partecipazione al culto ed al sacerdozio, non è
più riservata ad una casta ebraica privilegiata, ma è aperta a tutte
le genti. Il segno che il Signore invierà e nel quale tutti gli
uomini potranno riconoscersi è Gesù stesso: tutti gli uomini si
riuniranno attorno a lui. Israele non si sentirà mai più solo, avrà
con sé tutte le nazioni gentili definitivamente unite nella pace che
procede dalla gloria di Dio, dalla sua visibile manifestazione a
tutti gli uomini, dalla sua rivelazione in Gesù. Nella nuova
comunità dei figli di Dio, nel nuovo Israele, tutte le differenze di
razza, di colore, di ceto e di lingua sono scomparse.
Di questo popolo faranno parte anche persone che “non hanno udito
parlare di me e non hanno visto la mia gloria”, eppure la loro
esistenza giusta li rende già popolo di Dio. Nasce allora un
movimento convergente da tutti i confini della terra verso
Gerusalemme. Ed ecco la sorpresa: anche tra i pagani Dio sceglierà
sacerdoti e leviti, abolendo ogni privilegio esclusivo di un popolo
e di una tribù e ogni formalismo sacrale. Si tratta di un
cambiamento radicale della prassi corrente in Israele, dove il
ministero sacerdotale era riservato ai discendenti di Aronne. Il
profeta sottolinea così che i pagani entreranno a far parte a pieno
titolo del popolo eletto.
Dio corregge colui che ama e mette alla prova colui che riconosce
come figlio, l’idea di questa seconda lettura è che Dio ci tratta
sempre come figli. E’ normale sentire tristezza per le correzioni,
ma questo è l’agire provvidenziale di Dio per noi. La correzione, la
prova, attesta la nostra filiazione nei confronti di un padre che ci
ama anche secondo criteri che a noi possono sembrare inaccettabili
ed assurdi. Anche il Figlio per eccellenza, Cristo, è divenuto causa
di salvezza passando attraverso l’oscurità della prova. Il dolore,
la sofferenza, sono prove che siamo figli di Dio.
Il vangelo di Luca inizia con una domanda rivolta a Gesù da uno
sconosciuto: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Questa
domanda, è il nocciolo del brano di oggi. Questo problema era posto
anche dai rabbini che ribadivano l’esiguità del numero di coloro che
avrebbero conquistato il Regno. La risposta di Gesù non è per loro
molto confortante. Nessuno infatti deve considerare la propria
appartenenza ad un mondo religioso come facile assicurazione di
salvezza. Questa è una grazia che va accolta. Le pratiche religiose
giudaiche non garantiscono nulla, anzi, la sicurezza di sé porta
distanti da Dio. Ciò che conta è la buona fede, la mancanza di una
propria sicurezza, che porta all’incessante ricerca della verità ed
alla gioia del cuore.
Gesù illustra la sua tesi con una parabola: la porta che conduce
alla sala da pranzo è stretta e molta folla vi si accalca. Si
avanzano soprattutto quelli che sono convinti di essere per
eccellenza “cristiani” e amici di Cristo perché continuamente hanno
gridato e segnalato agli altri questa loro identità. Ma ecco la
risposta glaciale del Cristo ripetuta per ben due volte: “Non non so
di dove siete”. Non basta aver “mangiato e bevuto” l’eucaristia, è
la scelta di vita e di fede autentica che fa spalancare le porte
della festa. Là entreranno “gli ultimi”, i “lontani” giusti, i veri
operatori di pace e di giustizia, i veri fedeli.
Coloro che hanno mangiato con Gesù, che lo hanno chiamato loro
Signore e che, tuttavia, gli sono estranei, sono in primo luogo i
giudei che non si sono convertiti ascoltando la sua parola. Ma sono
estranei a lui anche i cristiani che hanno mangiato con Gesù
(eucaristia), hanno ascoltato la sua parola e lo hanno chiamato
Signore nella preghiera, ma hanno però praticato la “ingiustizia”;
non hanno messo in pratica la parola di Gesù; non hanno ricevuto il
messaggio del suo regno e quindi restano fuori.
Il verbo che usa Gesù è “sforzarsi” di entrare nella porta, è il
verbo della lotta. Questo è il cammino da fare per passare
attraverso la porta stretta, perché il cammino non è immediato né
facile, bensì molto impegnativo. Passare attraverso la porta stretta
significa togliere quello che ci appesantisce, fare un
discernimento, una scelta nella nostra vita e abbandonare tutto ciò
che ci impedisce di oltrepassare quella porta.
Ecco allora che il cammino è ancora quello della fede che va
rinnovata ogni giorno, cioè un cammino che vuole entrare nella
nostra vita di tutti i giorni e vuole modellarla, altrimenti
rischiamo di essere persone che mangiano alla sua mensa, che pregano
tanto, ma che poi Gesù non sa da dove veniamo, non sa chi siamo
perché lui non lo abbiamo proprio incontrato.
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