SCHEDE DI LITURGIA

A CURA DI ANTONIO RAIA

 

VI DOMENICA DI PASQUA

 

La prima lettura ci da un esempio concreto di come la Chiesa deve lasciarsi guidare dallo Spirito, tale insegnamento ci è offerto da una situazione vissuta dalla comunità apostolica.

Un aspro dibattito era sorto a proposito delle osservanze giudaiche in merito alla questione delle relazioni che passano fra l’antica e la nuova alleanza. Ad Antiochia si battezzavano uomini non circoncisi considerandoli come membri a pieno titolo della Chiesa. A Gerusalemme invece, non la si pensava così, infatti, cristiani della Giudea scesero ad Antiochia per rivendicare i pretesi diritti del giudaismo sul paganesimo, ponendo cioè, come condizione per l’accoglienza dei pagani, l’obbligo della circoncisione mosaica: “non c’è salvezza fuori della legge”. Questi giudei, con questa affermazione, annullavano praticamente la redenzione operata da Cristo e riducevano la Chiesa ad una setta giudaica, minacciandone la stessa esistenza. Paolo e Barnaba non predicavano l’abrogazione della legge, ma aprivano le porte della Chiesa a quei pagani che fossero giunti alla fede, in effetti essi si fanno difensori della libertà cristiana, la libertà dello Spirito, e ricevono l’approvazione del Concilio di Gerusalemme (49-50 d.C.). È la svolta decisiva, quando cioè il collegio apostolico e presbiterale di Gerusalemme riconosce ufficialmente l’evangelizzazione dei pagani staccandosi definitivamente dalla sinagoga. La Parola poté così proseguire la sua marcia “fino all’estremità della terra”.

 

La seconda lettura ci dà il senso definitivo della Chiesa che si costruisce nel tempo: essa prepara la Città santa, la Chiesa dei salvati, luogo di incontro di tutti gli uomini e di piena comunione con Dio.

Nella visione contemplata da Giovanni, la Gerusalemme santa scende dal cielo e Giovanni ne può ammirare la magnificenza. La città risplende della gloria di Dio perché possiede la presenza stessa di Dio e quindi “non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna… la sua lampada è l’Agnello”. Da quando è venuto l’Agnello, cielo e terra si sono incontrati, il Tempio di Dio non c’è più, perché il Tempio è lo stesso Agnello. Ma questa Gerusalemme celeste non è solo un avvenimento futuro, ma ci appartiene già oggi.

 

Nel Vangelo di Giovanni, il discorso di Gesù ha come centro il dono dello Spirito Santo. Per consolare i discepoli, rattristati per la sua dipartita ormai imminente, Gesù fa una promessa che realizzerà con la sua morte e risurrezione: lo Spirito Santo verrà ad abitare per sempre in loro perché “insegni” ogni cosa e “ricordi” i suoi insegnamenti.

Il discorso inizia con una precisazione di Gesù sul significato del vero amore dei discepoli nei suoi riguardi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”. Si tratta di un amore fondato sull’accoglienza della parola di Gesù e sulla sua manifestazione pratica: l’amore fraterno. È questo amore concreto per Cristo che apre all’uomo la vita della comunione trinitaria, perché Gesù dice: “e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Gesù dichiara esplicitamente di essere uno col Padre, ma il “noi” deve includere anche lo Spirito Santo.

Dimorare, nel messaggio biblico esprime “Uomo dimora di Dio”, che nella tradizione veterotestamentaria era la “tenda”, il “tempio”, “Gerusalemme”. In Giovanni la dimora di Dio è l’uomo attraverso l’incarnazione di Gesù.

Ne segue quindi che l’inabitazione della Trinità in noi è condizionata solo da noi stessi: amare Gesù e osservare la sua Parola. Lo Spirito Santo dunque, insieme al Padre e al Figlio, fissa la sua dimora dentro di noi.

Poi il Signore fa uso del saluto “Shalom”, “pace”, che era ordinario fra gli Ebrei, all’arrivo e alla partenza. Ma qui il Signore ne fa uso per dar loro l’addio, per annunziare che la sua partenza è imminente. Questa pace non è quella che da il mondo semplicemente come un saluto, un augurio e talvolta per motivi di interesse con lo scopo di ricevere un contraccambio; la pace di Cristo è un dono di Dio agli uomini, è la certezza di possedere il suo amore, conquistato per noi da Cristo nel momento in cui ha donato la sua vita.

Poi Gesù notando la tristezza che aveva riempito il loro cuore, fa loro presente che se il loro amore per lui fosse stato profondo, essi si sarebbero rallegrati dell’annuncio della sua partenza, a motivo della gloria che lo aspettava presso il Padre. Ma il loro dolore aveva una radice antica, l’egoismo, perché l’amore vero non cerca il proprio bene, ma quello della persona che si ama.

La pericope successiva è stata in tutti i tempi della cristianità l’arma più potente di quanti contestano la suprema divinità di Cristo, perché il Signore anziché farsi uguale col Padre, proclama che il Padre è superiore a lui.

Nella Chiesa antica, gli Ariani avevano fatto di questo passo la loro arma di battaglia. Invece, va considerato il fatto che Gesù in quel momento storico era una creatura, per quanto elevata fosse la sua posizione nella scala degli esseri, per cui non poteva in alcun modo paragonarsi a Dio. La superiore grandezza del Padre si spiega proprio in rapporto alla personalità del Figlio al momento in cui pronunziava quelle parole; ovvero la superiorità del Padre la si trova nella sua relazione col Figlio, mentre questi era nella carne. Questo è il senso che indica la subordinazione in cui Gesù si trovava allora relativamente al Padre, e che cesserebbe nel momento del suo ritorno nella gloria.

 

Infine, il Signore prepara i discepoli su quello che sarà il loro futuro, e cioè le prove cui stavano per andare incontro: “ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate”. Si comprende che la venuta dello Spirito Santo ha lo scopo di annunziare loro quei fatti e ricordare tutti i suoi insegnamenti prima che arrivassero le prove, perché quando sarebbero arrivate, la loro fede in lui fosse stabilita per sempre.

 

 

 

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