SCHEDE DI LITURGIA

A CURA DI ANTONIO RAIA

 

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 

Alle beatitudini e ai guai di Luca fa eco il testo di Geremia, infatti, nella prima lettura il profeta accosta insieme maledizione e benedizione. Egli condanna ogni forma di idolatria nella quale l’uomo diventa il dio di se stesso e le realizzazioni umane diventano le sue sicurezze. Chi pone nella carne il suo sostegno è paragonato alla pianta di tamarisco, arbusto gramo che germina nella steppa, privo di frutti, destinato a stentare in un terreno arido e salmastro. Dio solo è invece una roccia salda alla quale l’uomo può aggrapparsi e dalla quale può ricevere forza e vita, solo poggiando in lui si è in grado di portare frutto. Quest’uomo è paragonato a un albero piantato lungo il fiume, sempre irrorato dall’acqua, sempre ricco di frutti. È l’uomo che confida nel Signore, il quale ha cura di noi, non ci mette da soli in terre aride, ma ci provvede un posto dove mettere radici e dove germogliare.

 

Nella seconda lettura Paolo riconduce i Corinzi al paradosso di una fede che mette in forse la risurrezione del Signore, egli dice che negarla significa mettersi fuori dalla speranza della risurrezione gloriosa dei corpi. Se una volta morti non si può risuscitare, “neanche Cristo è risorto”.

Questo è un punto complesso, in quanto alcuni obbiettano che il caso di Cristo è diverso perché egli è il Figlio di Dio. Cristo morì come uomo e quel che fu sepolto fu il suo corpo umano. Quindi se non è ammissibile la risurrezione di chi è morto, non può ammettersi eccezione per il corpo morto di Cristo.

Paolo dice poi che la fede è vana se Cristo non fosse risorto, essa è senza fondamento saldo, poggia sul vuoto. Tolta la risurrezione, crolla la giustificazione dei peccatori “e voi siete ancora nei vostri peccati”, cioè non liberati dalla condanna.

Dopo aver mostrato a quali conseguenze conduce il falso principio che non c’è risurrezione dopo la morte, Paolo ritorna sul terreno dei fatti ben costatati della risurrezione di Cristo. La sua vittoria sulla morte è la garanzia della vittoria riservata a coloro che sono uniti a lui per fede.

 

Il vangelo che ascoltiamo oggi, è la redazione lucana della proclamazione delle beatitudini, la quale ha alcuni tratti caratteristici che la distinguono da quella di Matteo. Anzitutto Luca conosce solo quattro beatitudini e le accompagna con altrettanti guai. Le parole sono rette dalla contrapposizione tra il portare frutto e l’essere sterile, tra la benedizione e la maledizione.

Luca racconta che Gesù alza gli occhi verso i discepoli e dice loro: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio”. Gesù ha spesso manifestato la sua predilezione per loro e Luca gli rivolge un interesse particolare, fa intendere che la beatitudine riguarda la povertà del discepolo, consiste nel fatto che Dio interviene in loro favore. L’ascolto delle beatitudini implica dunque che coloro che sono chiamati poveri, sono chiamati poveri perché discepoli. Chi dice di si all’evento Gesù prova la gioia di sentirsi amato da Dio e inserito nella storia della salvezza partecipando alla sorte dei profeti e di Gesù. Poi la povertà la esplicita nella fame, nel pianto, nel rifiuto.

Troviamo poi una contrapposizione esplicita, le beatitudini sono seguite da quattro antitesi che non sono da comprendersi come maledizioni, né condanne irrevocabili, ma piuttosto come appelli vigorosi alla conversione. Notiamo ancora come Gesù agli uni e agli altri, ma con accenno diverso, richiami l’agire dei padri con i profeti. Questi ultimi sono stati perseguitati; al contrario esaltati e adulati sono stati i falsi profeti.

Le parole di Gesù esprimono il manifesto della rivoluzione più grande, quella che riconosce come destinatario del messaggio chi è in condizione di indigenza, di povertà, di emarginazione. Questa rivoluzione consiste nel dover assumere, come discepoli, il riconoscimento dei poveri, dei diseredati, degli affamati, degli afflitti come manifestazione di Dio. La sequela di Cristo deve assumere l’impegno a restituire a ciascun povero, ciascun perseguitato, la dignità di creatura fatta a immagine di Dio. La comunità ecclesiale, e in essa il singolo cristiano, non possono costruirsi nessun alibi a tal riguardo. La tentazione, invece, è quella di stare dalla parte dei potenti, dei vincenti, e magari di essere noi stessi potenti e vincenti.

 

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