TUTTI I SANTI
La
festa di Tutti i Santi non è una celebrazione in ricordo di tutti i
santi che non appaiono nel calendario al fine di comprenderli ed
accontentarli tutti senza escluderne alcuno. È invece la festa di
tutti i cristiani che con il battesimo hanno ricevuto la possibilità
di percorrere la strada della santità con la loro partecipazione
alla vita di Cristo. Sono tutti coloro che il loro miracolo lo
compiono nella difficoltà della loro esistenza con una vita di
testimonianza concreta della fede, rendendo evidente agli occhi del
mondo che la santità non è una realtà irraggiungibile e destinata
solo a pochi eletti, particolarmente dotati, non è utopia per le
persone normali, ma è una realtà possibile a tutti, una meta
raggiungibile senza doti particolari oltre una fede vera e
testimoniata. È la fede che smuove le montagne.
La prima lettura di oggi ci dice che alla vigilia della rovina di
Gerusalemme Dio pone il sigillo sulla fronte dei suoi fedeli come
segno di salvezza al momento del giudizio e che dimostra
l’appartenenza al Signore. La tremenda paura non riguarda la
comunità dei perseguitati perché i segnati sulla fronte sono
benedetti e protetti da Dio. Il numero simbolico 144.000 indica la
perfezione e la moltitudine dei salvati (il quadrato delle 12 tribù)
e quello tipico della moltitudine (il mille) ci presentano oggi la
gioiosa possibilità di salvezza offerta a tutti i credenti ed a
tutti gli operatori di pace e di giustizia. Nei “segnati” si cela la
Chiesa intera, il popolo di Dio, i fedeli di Cristo.
Poi la visione si allarga: la folla diventa senza numero, presa fra
tutte le nazioni della terra; da ogni parte vengono i martiri e
tutti coloro che hanno sopportato e superato la prova: è la Chiesa
tutta.
E’ una grandiosa celebrazione della felicità e del trionfo, è la
Chiesa stretta dalle tribolazioni e dalle persecuzioni, assistita
dal Cristo suo Pastore e trasportata verso il trionfo celeste. Tutti
hanno il vestito bianco, simbolo della luce di Dio ed in mano hanno
una palma, simbolo di vittoria. Non contano più in mezzo a loro le
distinzioni razziali, linguistiche e culturali; una pari dignità li
accomuna: “hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello”.
Significativo è il simbolo del sigillo, esso è il segno della
proprietà di una cosa e del rapporto di intimità che si ha con essa.
Gli ebrei erano convinti che la prosperità materiale, il successo,
fossero segni della benedizione di Dio e segni invece di maledizione
la povertà e la sterilità. Gesù denuncia l’ambiguità di una
rappresentazione terrena della beatitudine.
Ormai i beati non sono più i ricchi di questo mondo, i sazi, gli
adulati, ma coloro che hanno fame e che piangono, i poveri ed i
perseguitati.
Le nove beatitudini di Matteo si riassumono nella prima: “Beati i
poveri in spirito”; le altre sono un corollario di questa. Poveri in
spirito non sono, secondo il senso di oggi, gli sciocchi, gli
sprovveduti, i sempliciotti, in contrapposizione ai furbastri ed
agli scaltri.
L’essere povero in spirito è il non avere una propria sicurezza, è
una disposizione interiore che impronta il proprio agire in ogni
circostanza alla disponibilità, all’aprirsi, all’accettare,
all’avere fiducia nel Signore; è la negazione del proprio orgoglio:
è l’ammettere di essere bisognosi, di non essere autosufficienti, di
dipendere da Dio; questo atteggiamento di sincera umiltà interiore è
quello che giustifica l’uomo e cioè lo pone in buona relazione con
Dio. Povero in spirito è chi è umile e dolce, chi attende la
salvezza solo da Dio, chi ha animo retto ed intenzioni pure, chi
lavora per la giustizia e per la pace.
C’è in questa beatitudine un appello a seguire quel Gesù che non ha
trovato posto nell’albergo, che non aveva una pietra su cui posare
il capo, che è morto povero e spoglio su una croce. La folla che
segue Gesù è anonima, fatta di gente semplice che vive del proprio
lavoro e non del lavoro degli altri; la gente che dai potenti del
tempo, ed oggi non sarebbe diverso, era imbrogliata ed oppressa.
Le beatitudini hanno questo senso: “Beati i poveri perché loro è il
regno dei cieli”. Sono coloro che vivono avendo vicino a sé il
futuro di Dio, cioè quel futuro che Dio promette loro, lo stanno già
vivendo, hanno la netta e convinta percezione della sua compagnia,
la comunione piena con lui, che realizza per loro il regno e per
questo possono accettare la sofferenza, possono accettare di
attendere perché quel futuro è già entrato nella loro vita. Il Dio
che li ama, che ha cura di loro, che gli è vicino nella sofferenza,
che li perdona malgrado il loro peccato, è il Dio che già ora ha
inaugurato qualche cosa di nuovo. Questa novità, questa compagnia,
questa condivisione di Dio al loro patire, diventa il motore della
loro beatitudine, della loro pazienza nella sofferenza, del loro
agire nella tristezza.
La santità, allora, altro non è che il sigillo della fede ed è alla
portata di tutti i credenti, dell’uomo comune, con una vita ed
un’attività normale, una persona come quelle che incontriamo tutti i
giorni all’esterno o all’interno della porta di casa. Santo è il
cristiano che veramente crede e pratica la sua fede quotidianamente.
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