SCHEDE DI LITURGIA A CURA DI ANTONIO RAIA |
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IV DOMENICA DI QUARESIMA
La IV domenica di Quaresima è detta “Laetare”, l’origine dell’espressione deriva dall’antifona d’ingresso della messa di questo giorno, che, in latino, inizia con Laetare Jerusalem, che significa: Rallegrati, Gerusalemme. È un invito all’esultanza che oggi viene fatto a noi, comunità cristiana prossima alla Pasqua, che stempera nella gioia il percorso di preghiera, digiuno, pentimento.
Ed è proprio la celebrazione della prima Pasqua nella Terra Promessa che ci viene proposta nella prima lettura. Giunto nella terra promessa, il popolo ha finalmente ottenuto la sua libertà, perché solo quando è in casa sua, in una terra sua, può celebrare la Pasqua, la festa della libertà. Ma Israele sa bene che cosa significhi questa libertà: essa consiste nell’amare e servire il Signore, sua vita e sua salvezza. Questa lettura offre due simboli suggestivi: la terra e la casa. All’uomo che segue il Dio di Israele, il Dio di Gesù Cristo, viene offerta una terra di grazia e di libertà, viene offerta una casa dove la relazione filiale con il Padre dice il senso stesso della vita.
Nella seconda lettura, Paolo si presenta come ambasciatore di Cristo e ci esorta ad assecondare l’iniziativa gratuita di Dio. “Essere in Cristo” significa essere unito a lui, fare di lui il fondamento della nostra vita. Chi è in Cristo “è una nuova creatura” in virtù della vita nuova che ci viene dallo Spirito: “è nato dall’alto”. Da un lato, “le cose vecchie sono passate”, cioè le idee, i sentimenti, le speranze, i modi di agire dell’uomo vecchio che è estraneo alla vita dello Spirito. Tutta quella vita secondo la carne è virtualmente finita con la conversione. “Ecco, ne sono nate di nuove”, cioè le cose vecchie sono state sostituite da cose nuove in modo da non esser più quelle di prima. Il corpo è lo stesso, ma è votato alla giustizia, non è più strumento di peccato. Paolo proclama che ogni cosa viene da Dio: rinnovamento interno, la sua stessa missione, tutto procede da Dio, il quale ha voluto, in Cristo, riconciliare il mondo a se, e far quindi giungere alle genti, per mezzo di messaggeri, la buona novella della salvezza. Paolo, dunque, incaricato ambasciatore da Dio, adempie a questa sua missione presso i pagani esortandoli ad accettare la riconciliazione, cioè a lasciarsi amare. Quanto ai credenti, egli li esorta a mostrare nella vita pratica i frutti della grazia.
La parabola del vangelo odierno esalta la «misericordia» divina. Dentro una storia di rifiuto dell’amore, di miseria e di peccato, Dio risalta per il suo amore infinitamente più grande di ogni chiusura umana. Luca colloca questa parabola in un contesto di critica da parte degli scribi e dei farisei in merito all’atteggiamento che Gesù assume nei confronti di pubblicani e peccatori. Gli scribi e i farisei non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve con persone che sono in una condizione di peccato permanente. La condivisione del pasto esprime una comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei peccatori, questa mescolanza di sacro e di profano, di giusto e di peccatore crea problema agli scribi e ai farisei. In questa parabola ci sono tre personaggi: il padre misericordioso, il figlio prodigo e il figlio maggiore. È il più giovane che si manifesta con un atteggiamento molto frequente anche oggi perché dice al padre: “dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Quindi sta scoprendo la sua autonomia. Questo figlio, va in un paese lontano dove possa fare quello che vuole; e lo fa “vivendo in modo dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”. La condizione di questo ragazzo diventa così grave al punto che è costretto “a pascolare i porci”. I porci sono animali immondi, non vengono allevati dagli ebrei; andare a pascolare i porci significa che è avvenuto uno sfaldamento dell’identità, un degrado della personalità. Il figlio scende al punto più basso della sua vita, da figlio è diventato servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha conquistata. A questo punto rientra in se stesso cioè prende coscienza del suo peccato e decide di ritornare a casa con la speranza che suo padre lo tratti come un padrone tratta i suoi servi. La sua conversione in effetti non è proprio tale, egli non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, con il desiderio di potere vivere in un modo meno disagiato di quello attuale. Qui entra in primo piano la figura del padre, il quale, “commosso” cioè “gli si sono mosse dentro le viscere”, per cui quando è di fronte a suo figlio, è come costretto dalle sue viscere ad un atteggiamento di misericordia: “gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. L’abbraccio del padre, il suo bacio, danno la certezza a questo figlio che è stato perdonato completamente ancor prima che egli abbia pronunziato una sola parola. Poi il padre ordina di mettergli l’anello al dito e i sandali ai piedi, cioè il figlio riacquista la sua dignità e la sua libertà. Il figlio maggiore però “si indignò”, perché il suo discorso: “io ti servo da tanti anni…non ho mai avuto un capretto…” mostra un rapporto tra lui e il padre come da lavoratore a datore di lavoro, ha sempre ricevuto quello che gli spettava come stipendio, ma niente di più di quello che va al di là del gratuito. Questo figlio rappresenta una religiosità seria e impegnata ma di scambio, dove Dio è datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio compie ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto quello che non entra in questo sistema di scambio economico diventa incomprensibile. È la religiosità tipicamente farisaica, quella delle opere, la moltiplicazione delle opere garantisce il merito. Ma il padre non vuole salariati, vuole avere dei figli, solo così è contento. |
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