LA DONNA NEL TEMPO

A CURA DI  IRIS E LUCIA

MATILDE DI CANOSSA

(1046-1115)

Il giorno 11 gennaio di questo anno si è conclusa a Mantova, in Casa del Mantegna, una importante mostra dedicata a Matilde di Canossa, promossa dalla Provincia di Mantova, con la collaborazione di istituzioni italiane e internazionali. Per noi questo evento è uno spunto per fare delle riflessioni su di una figura femminile determinante nella storia d’Italia.

 Ci piace pensare che la Matelda, di cui parla Dante nel XXVIII canto del Purgatorio (vv.76-108), sia proprio lei.

Matilda di Canossa, come la Matelda dantesca, ci colpisce per la forza e la solitudine che fanno da cornice di un mondo in profonda trasformazione, scandito da dispute, riforme della Chiesa, investiture, scelte politiche, eventi drammatici della sua esistenza, il potenziamento dei castelli, le donazioni a monasteri e pievi, gli scontri armati con l’imperatore e con i suoi sostenitori, fino alla devoluzione dei beni al patrimonio di San Pietro dopo la sua morte. L’eco di quei fatti, la fama di Matilde e l’esigenza di farne un emblema del sostegno politico al papato hanno alimentato un mito che arriva fino a noi e che ha ispirato anche Dante, Giulio Romano, Gian Lorenzo Bernini, dando vita a capolavori straordinari.

Il monaco Donizone scriveva di lei:

Tutto quanto io posso cantare di una donna si' grande

e' sempre meno di quanto ella meriterebbe:

lo sappia il popol con me e sappiate che puo' essere solo ammirata.

    Ella e' luminosa quanto e' fulgido l'astro di Diana;

la fede l'illumina, la speranza l'avvolge in modo mirabile,

e abita in lei il dono maggiore, la carita'.  

Matilde di Canossa, la contessa guerriera, indomita e fiera, così la ritrae il monumento di Lorenzo Bernini, posto sulla sua tomba, nella quale riposa in san Pietro in Vaticano e dove, ad eterna memoria, è definita “onore e gloria d’Italia”. D’altra parte anche il nome, Matilde, di origine germanica, che significa, appunto, “possente in battaglia” , si può dire sia stato, per certi versi, profetico di questo suo singolare destino.

Chi era Matilde di Canossa?

Una donna sola:

 

 

 

 

 

 

 

E là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.
Purgatorio, Canto XXVIII, vv. 37-42
 

Molto acuta è l’immagine dantesca, attribuitale dalla maggior parte della critica letteraria, di Matelda, la dama, che viene presentata nel Purgatorio e che sarà accompagnatrice e guida all’interno del Paradiso Terrestre, prima dell’incontro tra il poeta e Beatrice, nel Paradiso.

Dante ci parla di una donna tutta sola, che intona melodie e intreccia collane di fiori con tanta grazia, che trasmette serenità e purezza; qui non c’è più traccia della guerriera, ma è rimasta la donna vincitrice, la donna realizzata, che gode i frutti delle sue molteplici buone azioni, immersa in uno sterminato prato variopinto, dove spiccano i colori dei fiori, gialli e rossi, che, aldilà dei significati allegorici, tanto ricordano le distese ondulate di papaveri primaverili e le macchie cespugliose delle ginestre nelle sue antiche terre.

Matelda appare a Dante fin dal primo istante come donna innamorata: è gioiosa in Dio e per questo sorride. L’inesperienza del poeta le fa subito precisare “Voi siete nuovi e per il fatto che io sorrida in questo luogo prescelto (siamo nell’Eden) quale nido per l’umanità, provate meraviglia e dubbio; ma vi renda luce il salmo Delectasti, che può disnebbiar la mente ”. E continua: Io dicerò come procede/ per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,/ e purgherò la nebbia che ti fiede. Matelda subito chiarisce il suo Amore primo e solo per Dio, lei nel suo semplice intrecciar ghirlande aderisce al progetto divino della creazione in modo tutto umano, tuttavia, il suo parlare come specchio di luce, che serve a disnebbiar il poeta, la rende giovane e innamorata capace di contemplazione. Il suo è retto Amore, è Carità, sottomissione amorevole a Dio. E’ per questa ragione che Matelda è sola, la sua solitudine non è disumanante, è piena consapevolezza di una risposta totale al disegno di Dio.

La solitudine fu per Matilde di Canossa compagna costante della vita: ella l’accettò con responsabilità ed abnegazione, in una esistenza percepita e vissuta interamente come missione a servizio di Dio e della Chiesa, tanto che fu definita da Papa Gregorio VII “serva fedele di Cristo, ancella del Signore”.

Nacque probabilmente a Mantova nell’anno 1046. Ancora piccola perse i due fratelli maggiori, Beatrice e Federico, anch’essi in tenera età, quando già era orfana di padre; l’anno precedente, infatti, il 1052, il padre Bonifacio morì assassinato durante una battuta di caccia nella zona si San Martino all’Argine.

La madre, Beatrice di Lorena, di nobile famiglia, non avendo figli maschi, decise, su suggerimento di Papa Leone IX, di risposarsi con il cugino Goffredo il Barbuto, sostenitore delle posizioni riformiste papali, così da irrobustire il legame di collaborazione con la Chiesa ma anche per assicurare i beni ereditari destinati a lei per discendenza familiare così come quelli imperiali, che invece Enrico III voleva impiegare diversamente.

Nonostante queste intrigate vicende la formazione della piccola non fu trascurata. Venne educata e cresciuta nell’amore per Dio e le sue leggi e anche nell’ambito culturale imparò ad amare l’arte, a scrivere, a parlare la lingua dei teutonici e quella dei franchi.

Ancora piccola, per volere del patrigno Goffredo, sempre per motivi di interesse, venne promessa sposa al figlio di lui, Goffredo il Gobbo, che sposò nel 1070 e dal quale ebbe una figlia, Beatrice, la quale morì pochi giorni dopo la nascita.

Matilde tornò dalla madre e, dopo l’assassinio di Goffredo il Gobbo e la morte della mamma nel 1076, divenne, a tutti gli effetti, per circa quaranta anni, la potente e capace padrona di un vasto territorio dell’Italia centro-settentrionale, rivelando indiscusse doti di stratega, diplomatica, amministratrice e guerriera.

Fu così che la Contessa divenne sostenitrice verace della causa della Chiesa e del Papa Gregorio VII, che voleva riformare la Sacra Istituzione e sottrarre il potere spirituale dalle mire imperiali. A questo scopo nel 1075 il Papa promulgò il Dictatus Papae, che stabilì la supremazia spirituale e temporale della Chiesa.

Mediatrice tra Gregorio ed Enrico

Enrico IV, Imperatore e cugino di Matilde, non gradì l’iniziativa e spinse il Sinodo dei vescovi tedeschi, riuniti a Worms, a deporre il pontefice, il quale, di contro, depose e scomunicò Enrico IV, liberando così i sudditi dal vincolo di fedeltà nei suoi confronti.

In questa situazione l’imperatore temette di perdere il consenso delle popolazioni, pertanto decise di sottomettersi al Papa e ciò avvenne grazie alla mediazione della cugina, che favorì l’incontro tra Gregorio VII ed Enrico IV, il quale, per ottenere il perdono del pontefice, si vestì di sacco, da penitente, e rimase per tre giorni in atteggiamento supplice in mezzo alla neve ai piedi della rupe di Canossa, nel gelido inverno del 1077.

L’Imperatore, tuttavia, dopo aver ottenuto il perdono, ritornò a scagliarsi contro il Papa; tale atteggiamento portò scompiglio, guerre, disordini per molti anni ancora e tutto questo influì profondamente nella vita di Matilde, che dovette fronteggiare situazioni spinose, umiliazioni laceranti, come ad esempio la ribellione dell’amata città di Mantova, sconfitte, offese diffamanti, decisioni drammatiche.

Di più, si aggiungevano le dicerie su rapporti non proprio casti che sarebbero intercorsi tra Matilde ed il grande papa. E, l’accusa più forte, quella di aver lacerato l’ordine dell’impero, di aver gettato cristiani contro cristiani, di aver sparso il sangue degli uni e degli altri. Allora dovette insinuarsi nell’animo di Matilde il dubbio di aver sbagliato. È difficile escluderlo se pensiamo che molti di coloro che le erano legati non smisero mai di rassicurarla della santità della guerra che conduceva, di ricordarle che aveva trasformato se stessa nella “sposa di Cristo”, sacrificando alla causa papale la propria vita privata e la propria immagine pubblica».

Il groviglio di dubbi, di scrupoli, di paure probabilmente raggiunse il suo culmine nel 1092 quando l’Imperatore scese in Italia e cominciò a conquistare la pianura con le città, per poi mettere in crisi la potente struttura fortificata dei castelli montani di Matilde, la quale si trovò costretta a viaggiare incessantemente in lungo e in largo per tutto il regno per sistemare, tamponare organizzare la resistenza anche se, ad un certo punto, sembrò tutto inutile e vano: i fedeli combattenti, sfiniti, volevano arrendersi e ormai era svanita la convinzione nella causa, tanto che il vescovo di Reggio Emilia, Eriberto, pensava non ci fosse ormai altra soluzione che la resa.

Fu presa nella sicura fortezza di Carpiteti, arroccata sulla cima del monte Antognano, la decisione più difficile in quel frangente: arrendersi o continuare a combattere?

Determinante fu l’intervento di un monaco, l’eremita Giovanni, che esortò la contessa a non cedere, a continuare a dare battaglia, a non vanificare tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento, a non accettare una pace priva di giustizia.

Matilde, toccata da quelle parole, decise di continuare; gli altri presenti la seguirono in questa impresa apparentemente folle e priva di ogni umana speranza. Fu così che la guerra riprese più feroce di prima, in un crescendo di scontri e fatti tragici come anche la morte di un figlio dell’Imperatore.

La risoluzione avvenne nell’ottobre del 1092 presso il monte Giumegna. L’Imperatore, deciso a cogliere di sorpresa le truppe matildiche, puntò su Canossa ma Matilde, subito informata, si mosse con la maggior parte dei suoi soldati verso il castello di Bianello: avendo colto la prossimità delle truppe imperiali, una buona parte dei contingenti della contessa tornò indietro, a Canossa.

Dopo aver pregato ed invocato l’aiuto di Maria Vergine, quando tutti ormai erano pronti a dare dura battaglia, si alzò improvvisa una nebbia densissima, così da disorientare le truppe dell’Imperatore, che si ritirarono dopo che il gonfalone imperiale fu loro strappato dai canossiani, più esperti di quelle terre e di quei fenomeni. Enrico decise allora la ritirata, inseguito dall’esercito di Matilde, che raggiunse il Po, conquistando, palmo a palmo, i territori sottratti.

Pochi anni dopo Matilde fu convocata da papa Urbano II al Sinodo di Piacenza dove verrà decisa la realizzazione della Prima Crociata.

In seguito arrivò anche un patto con l’Imperatore ma solo nel 1111, nel castello di Bianello, quando sul Trono imperiale era ormai salito Enrico V, il quale riconsegnò ufficialmente a Matilde i domini confiscati dal padre, nominandola anche Regina d’Italia e Vicaria dell’Imperatore.

La vita terrena di Matilde fu lunga e travagliata anche dal punto di vista degli affetti, tuttavia, a distanza di tanti secoli, di lei  “Matilde, per grazia di Dio”, come amava umilmente firmarsi nelle sue lettere, resta la testimonianza forte di una persona, che, tra incertezze, ombre e difficoltà, ha saputo cogliere il valore assoluto della vita.

Il fatto, cioè, che l’esistenza non sia una questione da affrontare con la leggerezza della banalità ma, al contrario, debba essere tenacemente vissuta, nelle fatiche del quotidiano, difesa anche a costo del sacrificio personale, nel santo timor di Dio e alla luce della fede.

Una donna sola, dunque, la cui compagna spesso fu la sofferenza, che ha saputo essere presenza fedele nella lotta senza tregua a servizio di un ideale superiore fatto di verità e giustizia: questo è l’insegnamento di cui fare tesoro in un tempo, il nostro, dove tutto viene affrontato con l’atteggiamento miope ed insulso dell’egoismo.

 

 

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