L'ANGOLO DI ANNARITA

 

CATECHESI MANZONIANE

Da molti anni rileggo i Promessi Sposi, per dovere professionale, certo, ma con sempre rinnovato interesse, meravigliandomi del fatto che ogni volta trovi spunti di riflessione, che non avevo approfondito abbastanza in precedenza. Quest’anno sono riuscita a dedicare il tempo dovuto anche agli ultimi capitoli, che in genere si riassumono in fretta, nell’imminenza della conclusione dell’anno scolastico. Così, ho avuto occasione di considerare che due pagine tra le più note e commoventi del romanzo, l’episodio della madre di Cecilia, e l’incontro tra Renzo e don Rodrigo morente, potrebbero essere paragonate a due brevi catechesi, la prima sul significato cristiano della morte, la seconda sul perdono.
L’incipit “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…” è sicuramente una delle frasi più note di tutta la narrativa italiana. In uno scenario di orrore e desolazione, la figura di Cecilia e quella della madre si stagliano come in una dimensione eterea, come se non potessero essere scalfite dalla tragica realtà che le circonda. La madre vive il suo dolore con pacatezza e dignità; la bambina, morta, ma composta, come se fosse stata viva, è adornata come per una festa, promessa da tanto tempo e data in premio, dice il testo. “Festa” è un termine chiave: per il cristiano la morte è, appunto, una festa, ed è la fede a renderla tale, togliendole la sua connotazione tragica. La madre si separa dalla figlia con grande serenità, consapevole che quel distacco è solo temporaneo: nel volgere di poche ore saranno di nuovo insieme, per vivere, stavolta sul piano dell’eternità, la loro unione resa indissolubile dai vincoli dell’amore e della preghiera reciproca. Preghiera che accompagnerà, da entrambe le parti, l’attesa del ricongiungimento.
E la preghiera è il mezzo che rende possibile il perdono di Renzo al suo oppressore. Il motivo del perdono ricorre in vari episodi del romanzo, ma in questo più che in altri si sottolinea innanzitutto che solo il perdono può vincere l’odio, e sopprimere la sua forza distruttrice. Si evidenzia, inoltre, che l’uomo diventa capace di perdonare, e conseguentemente di amare il suo nemico, unicamente se sorretto dall’aiuto del Signore. Renzo lo ribadisce per due volte nel testo, quasi a cercare un solido appoggio per la sua debolezza. Nell’immediato, è padre Cristoforo, con il suo appassionato rimprovero, a sostenere il giovane ed a farlo recedere dai suoi propositi di vendetta, vendetta che quest’ultimo, nel suo legittimo furore contro un uomo che, obiettivamente, ha danneggiato in maniera forse irreparabile la sua vita, confonde con la giustizia, illudendosi che la giustizia umana possa, alfine, ristabilire l’ordine delle cose. Ma non spetta all’uomo fare giustizia, la sua comprensione della realtà è troppo limitata. La stessa agonia di don Rodrigo non può essere semplicisticamente intesa come il meritato castigo alla sua scellerata condotta. L’incoscienza può essere punizione divina, perché gli impedisce il pentimento, ma il protrarsi della sua vita può essere attesa del perdono dell’uomo da lui perseguitato, può essere attesa di una preghiera salvifica. Il disegno divino resta imperscrutabile, e l’unica via che l’uomo può percorrere con sicurezza è quella tracciata da Dio per lui. Renzo comprende il suo errore, e riesce a perdonare, affidandosi al Padre. E noi?...
 





 

 

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