DONNE IN BIKINI, E DONNE CON IL
VELO
Tempo di vacanze, e di riposo, per molti, me compresa. Sulla
spiaggia fortunatamente poco affollata e moderatamente soleggiata ho
ritrovato qualche minuto in più, soprattutto di sera, per leggere i
giornali. Gli argomenti prevalenti erano le diete dell’ultimo
momento per affrontare con dignità la prova-costume, suggerimenti
vari su cosa non bisogna assolutamente dimenticare di mettere in
valigia, e gossip discretamente impietosi sulla vita, e sulla morte,
di quello strano personaggio con i calzini bianchi, che le persone
della mia generazione, appassionate o meno di musica pop,
ricorderanno comunque con una certa tenerezza… Ma c’è anche
dell’altro. Su una rivista tipicamente femminile ho letto
un’inchiesta sulla condizione delle donne in Mauritania. Per pura
deformazione professionale, ho pensato subito di discuterne in
classe il prossimo anno. Il tema è sempre interessante, lo riscontro
puntualmente sul campo. I piedini fasciati delle bimbe cinesi, la
dote delle spose indiane, i diversi tipi di velo delle donne
islamiche, e così via, risultano sempre tra gli argomenti più
seguiti del programma di geografia. E’ risaputo che in molti Paesi
africani è ancora molto diffusa la pratica della mutilazione
sessuale, per quanto in molti casi vietata dalla legge. Ignoravo, lo
confesso, l’esistenza di un’altra forma di violenza, incruenta ma
non meno pericolosa per la salute, alla quale vengono sottoposte le
bambine a partire dall’età di cinque anni, il “leblou”, cioè
alimentazione forzata. Le piccole vengono condotte in luoghi
appositi, immagino qualcosa di simile ad un collegio, non certo
paragonabile ad una scuola, perché in quel Paese in genere le donne
non studiano, e costrette a mangiare in maniera smodata, arrivando
così a pesare fino ad ottanta chili verso i dodici anni. L’opulenza
è considerata sinonimo di bellezza, e indice di benessere. Un
proverbio locale recita che la mole di una donna indica la quantità
di spazio che occupa nel cuore di un uomo, praticamente una ragazza
grassa è più desiderabile ed ha maggiori possibilità di contrarre un
buon matrimonio. L’alta incidenza di diabete e malattie
cardiovascolari ed il forte abbassamento della durata media della
vita sono evidentemente considerati una conseguenza di scarsa
importanza. Mi viene da sorridere, pensando che con i miei
quarantacinque chili in Mauritania sarei sicuramente rimasta
zitella, ma c’è ben poco da sorridere.
Manco a farlo apposta, negli stessi giorni un quotidiano riporta la
storia tragica di Claudia, una ragazza belga originaria del Ciad,
gettata nel fiume dal marito pachistano che voleva impedirle di
divorziare. Con impressionante simmetria, anche l’autore di
quest’articolo cita un detto: “In Pakistan ci si sposa per la vita o
per la morte”. Anche da noi si dice “finché morte non li separi”, ma
si intende la morte naturale! Una vicenda simile a quella di Hina,
la ragazza pachistana divenuta un simbolo, uccisa nel bresciano
qualche anno fa dai familiari perché voleva opporsi ad un matrimonio
combinato.
Donne indifese, vittime di tradizioni tribali, vittime
dell’arretratezza culturale, certo, ma anche della nostra
indifferenza di occidentali emancipati. Il prossimo otto marzo,
allora, invece di scambiarci auguri, mimose e baci Perugina, e di
affollare le pizzerie, faremmo bene a ricordarci che ci sono ancora
migliaia di ragazze, sparse qua e là per il mondo, che coltivano il
sogno proibito di indossare un paio di jeans.
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