SAN MARCELLO MAGGIORE | ||
Iconografia dei cavalieri normanniNella città di Capua, il portale laterale della chiesa di San Marcello Maggiore, che si affaccia su via Gran Priorato di Malta ed in particolare lo stipite di sinistra, per chi guarda, conserva una testimonianza iconografica importantissima dei cavalieri normanni nel XII secolo. Le figurazioni dello stipite di sinistra, che di seguito cercheremo di descrivere e interpretare, sono conosciute dagli studiosi ma poco studiate e illustrate, tanto che, ancor oggi, potrebbe esser valida la descrizione che ne fece l’arcidiacono capuano, Francesco Granata, nel XVIII secolo: “Dall’altro lato di questa porta si osserva un bassorilievo di varie figure d’arbori, cani, cervi, e di uomini confusamente frammezzati; lo che fa conoscere, che sia un’idea di caccia, e lavoro non fatto pel luogo, dove sta, ma per altro luogo, e diverso uso[1]”. Lo stipite si presenta spezzato in due parti. Le figurazioni della parte inferiore, più lunga, si susseguono, come per essere viste orizzontalmente, invece che sovrapporsi verticalmente come si conviene in uno stipite, e ciò lascia pensare che si tratti di un marmo di spoglio riutilizzato, forse un architrave, estraneo alla chiesa. La parte superiore, più piccola, che raffigura un leone, avente tra le fauci un uccello, cavalcato da una figura umana con una lunga veste, è diversa per stile e soggetto ed è stata aggiunta, evidentemente per pareggiare l’altezza con lo stipite di destra. Lo stipite viene fatto risalire a dopo il 1140, sulla base del particolare che i cavalli sono equipaggiati con il morso, un’innovazione introdotta dopo questa data[2], e si pensa sia opera di maestranze lombarde che s’ispirarono a modelli romanici francesi[3]. Un girale si dipana per tutto lo stipite e nelle sue volute sono raffigurate tre scene di vita cavalleresca[4]. Partendo dal basso verso l’alto, vale a dire da sinistra verso destra, la prima scena raffigura due cani levrieri, di cui uno indossa un collare, che inseguono un cervo mentre un uomo, della quale è andato completamente perduto il viso, con braccia alzate assiste alla scena. Sul polso sembra poggiarsi un uccello, probabilmente un rapace. Il suo abbigliamento non è ben leggibile, sembra portare una tunica o cotta[5], lunga fino a metà polpaccio con spacco centrale. È visibile un rigonfiamento all’orlo della cotta, cosa che fa pensare che sotto di essa venisse indossato un altro capo, le braghe, un indumento maschile, simile ai calzoni, che proteggeva le gambe fin sotto al polpaccio. Al collo pende un oggetto, quasi sicuramente un corno da caccia. Siamo al cospetto di una scena di caccia con falcone, attività venatoria che proprio nel XII secolo si diffuse nell’Italia meridionale[6]. Nel trattare del costume dei normanni, il monaco Goffredo Malaterra scrisse: “Si dedicano alla caccia, compresa quella col falcone; amano lo sfarzo nel vestire oltre che nell’addobbo dei cavalli e in altri equipaggiamenti militari”[7]. Comincia ad emergere qualcosa del mondo dei cavalieri venuti dalla Normandia. Falco e levriero erano due dei simboli del rango di cavaliere[8]. Il levriero era considerato il più nobile e veloce tra i cani mentre il falco per la sua aggressività era considerato simbolo stesso dell’uomo d’armi e per il volare alto designava l’uomo nobile. L’altro oggetto, simbolo del proprio status, che il cavaliere portava sempre con sé, sia in guerra che in pace, durante la caccia o i banchetti, era il corno, chiamato anche olifante. Ma la scena potrebbe anche essere un’allegoria del corteggiamento amoroso, infatti, la poesia medievale, si appropriò dei simboli dell’attività venatoria per parlare metaforicamente d’amore. Il falco, il più nobile tra i predatori, era il simbolo maschile, mentre il cervo, la più nobile tra le prede, rappresentava il simbolo femminile, la donna amata[9]. Pertanto anche se la caccia con il falcone si praticava in tempi e in modi diversi dalla caccia al cervo, le due cacce finirono per essere raffigurate affiancate[10]. La caccia con il rapace, la poesia cortese, rientravano nel campo degli svaghi nobiliari, ma il cavaliere era prima di tutto un guerriero, la sua passione era la guerra, come scriveva Bloch,”le distrazioni nobili per eccellenza ricevevano l’impronta di uno spirito guerriero. La caccia, anzitutto[11]”. Pertanto non è un caso che la seconda scena illustri la caccia al cinghiale: due cani inseguono un grosso cinghiale che travolge un terzo cane raffigurato capovolto sotto di esso. Tra le volute del girale compare un uccello, sistemato a testa in giù rispetto ad una posizione naturale e raffigurato con grossi artigli. Il cinghiale viene affrontato da un cavaliere che lo colpisce con uno spiedo[12]. L’uomo barbuto con capelli lisci e lunghi fino al collo, è raffigurato abbigliato con una cotta lunga con spacco, indossata sopra le braghe. Le maniche qui sono più leggibili e si presentano larghe al polso e con evidenti decori lungo l’orlo. Gli speroni ai piedi e la spada nel fodero, appesa alla cintura, il cingolo, simboli del miles, ci rivelano che si tratta di un cavaliere. Gli speroni sono del tipo a stella, con il collare ad U che cinge il calcagno, le branche che passano sotto il piede, la forchetta che sporge dietro, reca, fissata all’estremità, la rosetta, infine una cinghietta allaccia lo sperone al piede. La spada corta ad una mano (90 cm circa) ha lama larga e dritta, a doppio filo parallelo, con la punta stondata e l’impugnatura con elsa corta a croce e pomo. Sul fodero è ancora leggibile una decorazione[13]. La spada, la principale arma da guerra, prerogativa dei nobili, era data al cavaliere al momento dell’investitura e diveniva parte della sua persona, fedele compagna, al punto da ricevere un nome proprio. Alle spalle del cavaliere un cavallo impennato è tenuto per le redini da un uomo, forse lo scudiero, che con l’altra mano regge un corno. Il cavallo, a causa dei suoi costi di mantenimento, rappresentava un preciso segno di distinzione sociale e di ricchezza ed era il simbolo fondamentale del cavaliere, parola che letteralmente indica colui che cavalca e quindi il soldato a cavallo. Il cavallo usato per la caccia, il palafreno, meno robusto ma più veloce del destriero, il cavallo montato in battaglia, è raffigurato bardato con sella, con arcioni alti, gualdrappa a quadrettoni, sottopancia, staffile molto lungo e staffa. La briglia è costituita da frontale, sopraccapo, sottogola, montanti, imboccatura con morso e redini[14]. Lo scudiero è abbigliato con una gonnella[15], con maniche larghe e polsi ampi, taglio sul davanti del girocollo, cintura in vita legata con un nodo e “calze solate” con punta prolungata[16]. La cotta è decorata sui polsi, lungo il girocollo e sul petto. Il motivo decorativo è dato da piccoli cerchi consecutivi tra due linee parallele. Anche qui il viso manca, ma si possono notare i capelli lunghi fino alle spalle. Era di moda, nei secoli XI e XII, portare i capelli lunghi e sciolti, nonostante la Chiesa non approvasse questa tendenza. La figura sembra portare una fascia o coroncina intorno al capo, usanza molto diffusa anche tra i guerrieri per legare o fermare i capelli lunghi, ma in questo caso sembra più per decorare, con seta pregiata, il capo. Lungo il piccolo frammento di mento rimasto, si nota la barba corta. Per la ricchezza del vestito e la posizione centrale occupata nella scena, questa figura non può rappresentare un battitore, ruolo affidato ai contadini, o un semplice scudiero, di solito un vassallo contadino. Si può ipotizzare che il cavaliere avesse al proprio servizio, così come avveniva oltralpe, uno scudiero nobile, il cadetto di una famiglia aristocratica, non ancora armato cavaliere, che compiva il suo apprendistato, prendendosi cura delle armi del cavaliere e che poteva esibire un abbigliamento conforme al proprio status. Oppure, più semplicemente, che la figura dello scudiero sia stata inserita per rappresentare il pubblico che assiste al trionfo del cavaliere. Infatti la caccia, nel Medioevo, coinvolgeva un gran numero di persone, era un momento socializzante che riuniva tutti gli abitanti della zona, nobili e subalterni, davanti ai quali, come una specie di teatro, il cacciatore mostrava le sue qualità cavalleresche[17]. La caccia era un tema molto presente anche nella letteratura dell’epoca. Per esempio, nel poema “Sir Gawain e il cavaliere verde”[18], redatto in Inghilterra, nell’ultimo quarto del 1300 ma ispirato ai temi e alle storie del romanzo francese di genere “cavalleresco” dei due secoli precedenti, si narra di una caccia che, ristretta ai suoi momenti principali, sembra quasi una descrizione puntuale della scultura capuana: “Slegati allora tra i rovi i cani si gettano in corsa … li incitavano i cacciatori coi corni e la bocca … con chiasso e clamore corrono dietro al cinghiale, a uccidere. Spesso, accerchiato, quello affronta la muta, ferisce i cani che levano latrati e guaiti … ma su un cavallo leggero gli galoppa appresso il signore, come prode in battaglia soffia nel corno, suona il raduno, cavalca per fitta boscaglia, insegue il cinghiale fino al tramonto ... agile smonta, lascia il destriero, sguaina la spada lucente, avanza sicuro … il cinghiale caricò dritto sull’uomo e furono un mucchio uomo e animale … ma la peggio l’ebbe la bestia, ché l’uomo prese la mira con cura e allo scontro piantò la lama nel petto …alti suonarono i corni quella cattura, levarono gli uomini grande clamore”. La caccia nel medioevo sommava contenuti pedagogici, ludici e militari. Attraverso la pratica venatoria, i bambini erano avvicinati alle tecniche belliche e alla morale guerriera; partecipando alle venazioni il guerriero si esercitava e mostrava il proprio valore; insomma caccia e guerra erano strettamente connesse. La terza scena rappresenta due cavalieri che, lancia in resta, si scontrano in “singolar tenzone”. I destrieri di entrambi i cavalieri sono bardati come il cavallo descritto nella scena della caccia, con l’unica differenza di un piccolo sottosella al posto della gualdrappa. Il cavaliere di sinistra indossa una cotta, in maglia di ferro, detta anche usbergo, dalle maniche lunghe e strette, lunga fin sotto il polpaccio. Il tipo più diffuso era costituito da migliaia di anelli di ferro concatenati ma, in questo caso, la cotta è rappresentata a squame. Siccome ci sono altre testimonianze iconografiche simili, l’affresco della badia di S. Maria de Olearia in Maiori del secolo XI e altre attestate in Spagna e in Francia, è probabile che i normanni, anche nel Mezzogiorno, utilizzassero sporadicamente, delle cotte di scaglie metalliche[19]. Lungo la gamba del cavaliere, si nota una piega dell’usbergo, il che fa supporre che la cotta avesse un taglio verticale sia davanti sia dietro, per cavalcare con facilità e che questi tagli non fossero stati legati intorno alle gambe. Sotto la cotta si nota un altro indumento, una tunica imbottita, detta anche gambeson o bambagione, che serviva per attutire l’impatto di un’arma e il peso dell’usbergo nonché per proteggere dagli sbalzi termici del metallo e dall’abrasione degli anelli sulla pelle. Il cavaliere porta ai piedi gli speroni a brocco e delle calzature a punta lunga. A protezione della testa ha un elmo ogivato e spigolato, che poteva essere anche di cuoio indurito da speciali lavorazioni. A causa del danneggiamento del viso non è chiaro se l’elmo fosse provvisto di nasale, la piastra metallica che pendeva dall’elmo a protezione del centro del volto, un elemento che compare dopo la metà del XII secolo. Al di sotto dell’elmo il camaglio, un cappuccio in maglia ferrea, in questo caso integrato nell’usbergo, proteggeva collo, nuca e mento, lasciando scoperti occhi, guance e baffi. Il cavaliere è armato solo di lancia lunga, pesante, con puntale metallico, tenuta in resta[20], cioè sotto l’ascella destra, che si spezza mentre perfora lo scudo dell’altro cavaliere. Il quale, si differenzia dal primo per alcuni particolari. Il volto è privo di barba. L’usbergo è rappresentato a rombi e non sappiamo se per indicare un usbergo di piastre metalliche di questa forma oppure un tessuto di maglie di ferro intrecciate a losanga. Sempre che non tratti della rappresentazione stilizzata di una maglia di anelli concatenati. L’elmo è a calotta semisferica, o a cupola, con le cinghiette in cuoio per fissarlo sotto il mento. Lo scudo, che protegge il lato sinistro, è del tipo detto a mandorla per la sua forma, arrotondata al capo e allungata verso il basso, che differenziava i cavalieri normanni dai longobardi, i quali utilizzavano lo scudo circolare della tradizione germanica. Sembrando entrambi i cavalieri d’etnia normanna, la scena potrebbe mostrare il valore del cavaliere in battaglia, forse un episodio della guerra combattuta tra i normanni fedeli agli Altavilla e quelli schierati con i Drengot, che nel 1139 si era conclusa, con la definitiva sottomissione del Principato di Capua al re di Sicilia Ruggiero II d’Altavilla. Trattandosi di scene che mostrano gli svaghi nobiliari è più probabile che si tratti della raffigurazione di un torneo, e più precisamente della giostra, la competizione nella quale i cavalieri si scontravano a coppie, un’attività agonistica che si diffuse a partire dalla metà del XII secolo, funzionale all’addestramento militare ma soprattutto significativa al livello della autorappresentazione delle aristocrazie[21] Ferdinando Mercogliano e Alfredo Donadono Pubblicato sulla rivista culturale “Agorà” anno 2006, edita dall’Associazione “Pro Lauro” di Lauro (Avellino). [1] Francesco Granata, Storia sacra della chiesa metropolitana di Capua, tomo I, Napoli, 1766, pag. 222. [2] Errico Cuozzo, La cavalleria nel regno normanno di Sicilia, Atripalda, 2002, pag. 77. [3] Stefano Bottari, Le sculture di S. Marcello a Capua, in “Commentari”, anno 6, n° 4, 1955, pagg. 235-240 [4] In generale sulle attività aristocratiche dei cavalieri normanni vedi Jean-Marie Martin, La vita quotidiana nell’Italia meridionale al tempo dei Normanni, Milano, 1997, pagg. 195 – 216. Sui cavalieri normanni: Errico Cuozzo, Quei maledetti Normanni, cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli, 1989. [5] Nome dato alla tunica intorno al XII secolo. In generale sull’abbigliamento nel medioevo vedi: Rosita Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, Torino, 1978. [6] Potrebbe anche trattarsi di caccia al capriolo con aquila sulla base di quanto scriveva Pietro De Crescenzi nel 1305: le aquile “ dimesticansi per pigliar con esse ogni grande uccello, e massimamente acciocché prendan lepri e cavriuoli con l’aiuto dei cani”, Pietro De Crescenzi, Trattato della Agricoltura, rivisto dallo ‘Nferigno, vol. III, Milano, 1805. Libro X, capitolo XV dell’aquila, pag. 215, ma non abbiamo trovato attestazione di tale pratica nel Mezzogiorno normanno. [7] Gaufredi Malaterrae De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, in: Rerum Italicarum Scriptores 2, V 1, ed. E. Pontieri 1928. Libro I capitolo IV. Per la traduzione in italiano: Goffredo Malaterra, Ruggero I e Roberto il Guiscardo, Cassino, 2002, pag. 31. [8] Paolo Galloni, Il cervo e il lupo, caccia e cultura nobiliare nel medioevo, Roma-Bari, 1993. Il nostro testo, sull’iconografia dei cavalieri, deve molto a questo libro che ci ha fornito i primi elementi di base per interpretare le scene dello stipite di San Marcello. [9] P.Galloni, Op. cit., pagg. 94-95. [10] Una scena di caccia, con il falcone e cani, si trova riprodotta su di un cofanetto rivestito d’avorio e dipinto in oro, risalente al XII secolo, conservato a Palermo, nel tesoro della Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni. Foto visibile all’indirizzo web: http://www.cesn.it/Arte_archeo/Italia/arte_sacra/165zoom.htm [11] Marc Bloch, La società feudale, Torino, 1999, pag. 343. [12] Una lancia con asta corta avente, di solito, degli arresti alla base del puntale. [13] Gli speroni comunemente usati fino al XIII secolo erano del tipo detto a brocco, cioè muniti di punta singola, piramidale o tonda, sporgente dal collare. Dal 1200 in poi si afferma lo sperone a stella, nel quale la punta è sostituita da una rotella dentata, la stella, detta anche rosetta o spronella, fissata al centro, ma libera di ruotare. Gli speroni ordinari, in ferro, erano sostituiti con speroni dorati nel momento in cui il giovane milite veniva armato, o ordinato, cavaliere e, per lo sesso motivo, venivano dorate anche le impugnature delle spade, vedi: Ludovico Antonio Muratori, Dissertazioni sopra le antichità italiane, LIII, Della instituzione de’ Cavalieri, e dell’Insegne che noi chiamiamo Arme. Un altro segno di distinzione riguardava la cintura della spada. Nel 1135, Ruggero II concesse a quaranta cavalieri, al seguito dei figli Ruggero e Tancredi, la decorazione del cingolo, vedi Alexandri Telesini coenobii abbatis, De rebus gestis Rogerii Siciliae regis, libro quarto, cap. V, per la traduzione italiana: Alessandro di Telese, Ruggero II re di Sicilia, Cassino, 2003, pag. 197. [14] In occasione della sua incoronazione, nel 1130, Ruggero II fu scortato da un seguito di cavalieri, che avevano le selle e le briglie delle cavalcature decorate d’oro e d’argento, vedi Alessandro di Telese, Op, cit., libro II, cap. V, pag. 66. [15] Così era chiamata la cotta corta al ginocchio e di fattura più pregiata. [16] Il prolungamento della punta delle calze è leggibile nonostante parte di essa sia spezzata. Le calze solate erano delle calze cui erano applicate delle suole sotto la pianta del piede, per evitare di indossare delle calzature che coprissero la qualità delle calze. L’uso di calzature a punta allungata si affermò tra il secolo XI e XII in Francia. [17] Massimo Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli, 1979, pag. 258 e P. Galloni, Op. cit., pag. 6. [18] Sir Gawain e il cavaliere verde, Milano, 1986, pagg. 93 -99. Anche Goffredo Malaterra, nel riferire notizie sulla famiglia di Roberto il Guiscardo, narra l’episodio in cui il padre, Tancredi, affrontò e uccise con la spada un enorme cinghiale che stava facendo strage dei cani che lo avevano accerchiato: G. Malaterra, Op. cit., libro I, cap. XL, pag. 87. Sappiamo che la letteratura cavalleresca era certamente conosciuta a Capua, in quanto, fin dal 1161 è attestata in città la diffusione dei nomi dei personaggi della letteratura francese del XII secolo. Vedi Giancarlo Bova, La vita quotidiana a Capua al tempo delle crociate, Napoli, 2001, pagg. 55 – 58. [19] Vedi Philippe Contamine, La guerra nel Medioevo, Bologna, 1986, pagg. 257 – 262. [20] L’espressione non è cronologicamente esatta, poiché all’epoca non esisteva la resta, la forcella fissata sul fianco dell’armatura sulla quale si appoggiava la lancia, ma è comunemente usata per indicare la lancia stretta sotto il braccio. [21] Franco Cardini, Il guerriero e il cavaliere, in L’uomo medievale, a cura di Jacques Le Goff, Roma-Bari, 1993, pag. 106.
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