Chiesa di San Marcello Maggiore
L’attuale chiesa è il risultato di una ristrutturazione effettuata nella prima metà dell’Ottocento allorché viene consolidato il campanile mente la chiesa viene quasi del tutto ricostruita. Tra gli episodi più antichi è il porticato della canonica con il reimpiego dei materiali di spoglio e la navatella di sinistra, di impianto medievale, che presenta otto campate a crociera con incisione orizzontale. Vi si accede dal cortile della canonica ed è possibile osservare gli elementi altomedievali. Dal giardino della canonica è visibile l’abside rimaneggiata dell’originaria chiesa a tre navate. Granata descrive (1766) la chiesa, ormai trasformata, ad una sola navata decorata da stucchi e ricorda al consacrazione del 1727. il ben noto portale laterale, su C.so G. Priorato di Malta, va datata alla prima metà dell’XI secolo. E’ realizzato secondo il gusto benedettino con il reimpiego di elementi più antichi; presenta un sistema trilitico ed una fascia ad arco. L’elemento orizzontale proviene dal tumulo di Audoalt, conte di Capua antica (VII sec.). gli stipiti sono di spoglio. Al gusto del reimpiego si lega un assemblaggio di vari pezzi antichi, sempre su via Principi Normanni.
Iconografia dei cavalieri normanni
Nella città di Capua,
il portale laterale della chiesa di San Marcello Maggiore, che si affaccia su
via Gran Priorato di Malta ed in particolare lo stipite di sinistra, per chi
guarda, conserva una testimonianza iconografica importantissima dei cavalieri
normanni nel XII secolo. Le figurazioni dello stipite di sinistra, che di
seguito cercheremo di descrivere e interpretare, sono conosciute dagli studiosi
ma poco studiate e illustrate, tanto che, ancor oggi, potrebbe esser valida la
descrizione che ne fece l’arcidiacono capuano, Francesco Granata, nel XVIII
secolo: “Dall’altro lato di questa porta si osserva un bassorilievo di varie
figure d’arbori, cani, cervi, e di uomini confusamente frammezzati; lo che fa
conoscere, che sia un’idea di caccia, e lavoro non fatto pel luogo, dove sta, ma
per altro luogo, e diverso uso”.
Lo stipite si presenta spezzato in due parti. Le figurazioni della parte
inferiore, più lunga, si susseguono, come per essere viste orizzontalmente,
invece che sovrapporsi verticalmente come si conviene in uno stipite, e ciò
lascia pensare che si tratti di un marmo di spoglio riutilizzato, forse un
architrave, estraneo alla chiesa. La parte superiore, più piccola, che raffigura
un leone, avente tra le fauci un uccello, cavalcato da una figura umana con una
lunga veste, è diversa per stile e soggetto ed è stata aggiunta, evidentemente
per pareggiare l’altezza con lo stipite di destra. Lo stipite viene fatto
risalire a dopo il 1140, sulla base del particolare che i cavalli sono
equipaggiati con il morso, un’innovazione introdotta dopo questa data,
e si pensa sia opera di maestranze lombarde che s’ispirarono a modelli romanici
francesi.
Un girale si dipana per tutto lo stipite e nelle sue volute sono raffigurate tre
scene di vita cavalleresca.
Partendo dal basso verso l’alto, vale a
dire da sinistra verso destra, la prima scena raffigura due cani levrieri, di
cui uno indossa un collare, che inseguono un cervo mentre un uomo, della quale è
andato completamente perduto il viso, con braccia alzate assiste alla scena. Sul
polso sembra poggiarsi un uccello, probabilmente un rapace. Il suo abbigliamento
non è ben leggibile, sembra portare una tunica o cotta,
lunga fino a metà polpaccio con spacco centrale. È visibile un rigonfiamento
all’orlo della cotta, cosa che fa pensare che sotto di essa venisse indossato un
altro capo, le braghe, un indumento maschile, simile ai calzoni, che proteggeva
le gambe fin sotto al polpaccio. Al collo pende un oggetto, quasi sicuramente un
corno da caccia. Siamo al cospetto di una scena di caccia con falcone, attività
venatoria che proprio nel XII secolo si diffuse nell’Italia meridionale.
Nel trattare del costume dei normanni, il monaco Goffredo Malaterra scrisse: “Si
dedicano alla caccia, compresa quella col falcone; amano lo sfarzo nel vestire
oltre che nell’addobbo dei cavalli e in altri equipaggiamenti militari”.
Comincia ad emergere qualcosa del mondo dei cavalieri venuti dalla Normandia.
Falco e levriero erano due dei simboli del rango di cavaliere.
Il levriero era considerato il più nobile e veloce tra i cani mentre il falco
per la sua aggressività era considerato simbolo stesso dell’uomo d’armi e per
il volare alto designava l’uomo nobile. L’altro oggetto, simbolo del proprio
status, che il cavaliere portava sempre con sé, sia in guerra che in pace,
durante la caccia o i banchetti, era il corno, chiamato anche olifante. Ma la
scena potrebbe anche essere un’allegoria del corteggiamento amoroso, infatti, la
poesia medievale, si appropriò dei simboli dell’attività venatoria per parlare
metaforicamente d’amore. Il falco, il più nobile tra i predatori, era il simbolo
maschile, mentre il cervo, la più nobile tra le prede, rappresentava il simbolo
femminile, la donna amata.
Pertanto anche se la caccia con il falcone si praticava in tempi e in modi
diversi dalla caccia al cervo, le due cacce finirono per essere raffigurate
affiancate.
La caccia con il rapace, la poesia cortese,
rientravano nel campo degli svaghi nobiliari, ma il cavaliere era prima di tutto
un guerriero, la sua passione era la guerra, come scriveva Bloch,”le
distrazioni nobili per eccellenza ricevevano l’impronta di uno spirito
guerriero. La caccia, anzitutto”.
Pertanto non è un caso che la seconda scena illustri la caccia al cinghiale: due
cani inseguono un grosso cinghiale che travolge un terzo cane raffigurato
capovolto sotto di esso. Tra le volute del girale compare un uccello, sistemato
a testa in giù rispetto ad una posizione naturale e raffigurato con grossi
artigli. Il cinghiale viene affrontato da un cavaliere che lo colpisce con uno
spiedo.
L’uomo barbuto con capelli lisci e lunghi fino al collo, è raffigurato
abbigliato con una cotta lunga con spacco, indossata sopra le braghe. Le maniche
qui sono più leggibili e si presentano larghe al polso e con evidenti decori
lungo l’orlo. Gli speroni ai piedi e la spada nel fodero, appesa alla cintura,
il cingolo, simboli del miles, ci rivelano che si tratta di un cavaliere.
Gli speroni sono del tipo a stella, con il collare ad U che cinge il calcagno,
le branche che passano sotto il piede, la forchetta che sporge dietro, reca,
fissata all’estremità, la rosetta, infine una cinghietta allaccia lo sperone al
piede. La spada corta ad una mano (90 cm circa) ha lama larga e dritta, a doppio
filo parallelo, con la punta stondata e l’impugnatura con elsa corta a croce e
pomo. Sul fodero è ancora leggibile una decorazione.
La spada, la principale arma da guerra, prerogativa dei nobili, era data al
cavaliere al momento dell’investitura e diveniva parte della sua persona, fedele
compagna, al punto da ricevere un nome proprio. Alle spalle del cavaliere un
cavallo impennato è tenuto per le redini da un uomo, forse lo scudiero, che con
l’altra mano regge un corno. Il cavallo, a causa dei suoi costi di mantenimento,
rappresentava un preciso segno di distinzione sociale e di ricchezza ed era il
simbolo fondamentale del cavaliere, parola che letteralmente indica colui che
cavalca e quindi il soldato a cavallo. Il cavallo usato per la caccia, il
palafreno, meno robusto ma più veloce del destriero, il cavallo montato in
battaglia, è raffigurato bardato con sella, con arcioni alti, gualdrappa a
quadrettoni, sottopancia, staffile molto lungo e staffa. La briglia è costituita
da frontale, sopraccapo, sottogola, montanti, imboccatura con morso e redini.
Lo scudiero è abbigliato con una gonnella,
con maniche larghe e polsi ampi, taglio sul davanti del girocollo, cintura in
vita legata con un nodo e “calze solate” con punta prolungata.
La cotta è decorata sui polsi, lungo il girocollo e sul petto. Il motivo
decorativo è dato da piccoli cerchi consecutivi tra due linee parallele. Anche
qui il viso manca, ma si possono notare i capelli lunghi fino alle spalle. Era
di moda, nei secoli XI e XII, portare i capelli lunghi e sciolti, nonostante la
Chiesa non approvasse questa tendenza. La figura sembra portare una fascia o
coroncina intorno al capo, usanza molto diffusa anche tra i guerrieri per legare
o fermare i capelli lunghi, ma in questo caso sembra più per decorare, con seta
pregiata, il capo. Lungo il piccolo frammento di mento rimasto, si nota la barba
corta. Per la ricchezza del vestito e la posizione centrale occupata nella
scena, questa figura non può rappresentare un battitore, ruolo affidato ai
contadini, o un semplice scudiero, di solito un vassallo contadino. Si può
ipotizzare che il cavaliere avesse al proprio servizio, così come avveniva
oltralpe, uno scudiero nobile, il cadetto di una famiglia aristocratica, non
ancora armato cavaliere, che compiva il suo apprendistato, prendendosi cura
delle armi del cavaliere e che poteva esibire un abbigliamento conforme al
proprio status. Oppure, più semplicemente, che la figura dello scudiero sia
stata inserita per rappresentare il pubblico che assiste al trionfo del
cavaliere. Infatti la caccia, nel Medioevo, coinvolgeva un gran numero di
persone, era un momento socializzante che riuniva tutti gli abitanti della zona,
nobili e subalterni, davanti ai quali, come una specie di teatro, il cacciatore
mostrava le sue qualità cavalleresche.
La caccia era un tema molto presente anche nella letteratura dell’epoca. Per
esempio, nel poema “Sir Gawain e il cavaliere verde”,
redatto in Inghilterra, nell’ultimo quarto del 1300 ma ispirato ai temi e alle
storie del romanzo francese di genere “cavalleresco” dei due secoli precedenti,
si narra di una caccia che, ristretta ai suoi momenti principali, sembra quasi
una descrizione puntuale della scultura capuana: “Slegati allora tra i rovi i
cani si gettano in corsa … li incitavano i cacciatori coi corni e la bocca … con
chiasso e clamore corrono dietro al cinghiale, a uccidere. Spesso, accerchiato,
quello affronta la muta, ferisce i cani che levano latrati e guaiti … ma su un
cavallo leggero gli galoppa appresso il signore, come prode in battaglia soffia
nel corno, suona il raduno, cavalca per fitta boscaglia, insegue il cinghiale
fino al tramonto ... agile smonta, lascia il destriero, sguaina la spada
lucente, avanza sicuro … il cinghiale caricò dritto sull’uomo e furono un
mucchio uomo e animale … ma la peggio l’ebbe la bestia, ché l’uomo prese la mira
con cura e allo scontro piantò la lama nel petto …alti suonarono i corni quella
cattura, levarono gli uomini grande clamore”.
La caccia nel medioevo sommava contenuti
pedagogici, ludici e militari. Attraverso la pratica venatoria, i bambini erano
avvicinati alle tecniche belliche e alla morale guerriera; partecipando alle
venazioni il guerriero si esercitava e mostrava il proprio valore; insomma
caccia e guerra erano strettamente connesse. La terza scena rappresenta due
cavalieri che, lancia in resta, si scontrano in “singolar tenzone”. I destrieri
di entrambi i cavalieri sono bardati come il cavallo descritto nella scena della
caccia, con l’unica differenza di un piccolo sottosella al posto della
gualdrappa. Il cavaliere di sinistra indossa una cotta, in maglia di ferro,
detta anche usbergo, dalle maniche lunghe e strette, lunga fin sotto il
polpaccio. Il tipo più diffuso era costituito da migliaia di anelli di ferro
concatenati ma, in questo caso, la cotta è rappresentata a squame. Siccome ci
sono altre testimonianze iconografiche simili, l’affresco della badia di S.
Maria de Olearia in Maiori del secolo XI e altre attestate in Spagna e in
Francia, è probabile che i normanni, anche nel Mezzogiorno, utilizzassero
sporadicamente, delle cotte di scaglie metalliche.
Lungo la gamba del cavaliere, si nota una piega dell’usbergo, il che fa supporre
che la cotta avesse un taglio verticale sia davanti sia dietro, per cavalcare
con facilità e che questi tagli non fossero stati legati intorno alle gambe.
Sotto la cotta si nota un altro indumento, una tunica imbottita, detta anche
gambeson o bambagione, che serviva per attutire l’impatto di un’arma e il peso
dell’usbergo nonché per proteggere dagli sbalzi termici del metallo e
dall’abrasione degli anelli sulla pelle. Il cavaliere porta ai piedi gli speroni
a brocco e delle calzature a punta lunga. A protezione della testa ha un elmo
ogivato e spigolato, che poteva essere anche di cuoio indurito da speciali
lavorazioni. A causa del danneggiamento del viso non è chiaro se l’elmo fosse
provvisto di nasale, la piastra metallica che pendeva dall’elmo a protezione del
centro del volto, un elemento che compare dopo la metà del XII secolo. Al di
sotto dell’elmo il camaglio, un cappuccio in maglia ferrea, in questo caso
integrato nell’usbergo, proteggeva collo, nuca e mento, lasciando scoperti
occhi, guance e baffi. Il cavaliere è armato solo di lancia lunga, pesante, con
puntale metallico, tenuta in resta,
cioè sotto l’ascella destra, che si spezza mentre perfora lo scudo dell’altro
cavaliere. Il quale, si differenzia dal primo per alcuni particolari. Il volto è
privo di barba. L’usbergo è rappresentato a rombi e non sappiamo se per indicare
un usbergo di piastre metalliche di questa forma oppure un tessuto di maglie di
ferro intrecciate a losanga. Sempre che non tratti della rappresentazione
stilizzata di una maglia di anelli concatenati. L’elmo è a calotta semisferica,
o a cupola, con le cinghiette in cuoio per fissarlo sotto il mento. Lo scudo,
che protegge il lato sinistro, è del tipo detto a mandorla per la sua forma,
arrotondata al capo e allungata verso il basso, che differenziava i cavalieri
normanni dai longobardi, i quali utilizzavano lo scudo circolare della
tradizione germanica. Sembrando entrambi i cavalieri d’etnia normanna, la scena
potrebbe mostrare il valore del cavaliere in battaglia, forse un episodio della
guerra combattuta tra i normanni fedeli agli Altavilla e quelli schierati con i
Drengot, che nel 1139 si era conclusa, con la definitiva sottomissione del
Principato di Capua al re di Sicilia Ruggiero II d’Altavilla. Trattandosi di
scene che mostrano gli svaghi nobiliari è più probabile che si tratti della
raffigurazione di un torneo, e più precisamente della giostra, la competizione
nella quale i cavalieri si scontravano a coppie, un’attività agonistica che si
diffuse a partire dalla metà del XII secolo, funzionale all’addestramento
militare ma soprattutto significativa al livello della autorappresentazione
delle aristocrazie
Ferdinando Mercogliano e
Alfredo Donadono
Pubblicato sulla rivista
culturale “Agorà” anno 2006, edita dall’Associazione “Pro Lauro” di Lauro
(Avellino).
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