"Lampa di Sant'Antuono"
Antonio abate è uno dei più illustri
eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore
dell'Egitto, intorno al 250, a vent'anni abbandonò ogni cosa.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e
ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro
l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del
Monachesimo.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto,
va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo,
poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che
vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e
castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi
beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla
vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione,
chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un
anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi
smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a
pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro
e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina
“Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la
distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente
ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava
tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù
cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo
tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così
solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli
ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni
materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e
incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma
di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli
consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi
in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica
tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di
Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto
si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti
visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile
oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio,
compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano
insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese:
“Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le
mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e
assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei
tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio,
aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro
solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano
verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata
dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si
trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa
nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si
ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune
convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana
di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella
figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare
un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci
riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando
le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni
diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava
con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli
apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso
l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita
solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il
“discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le
apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze
angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla
vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come
ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti
ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo
i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due
monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del
fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad
un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava
i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti
a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372),
che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le
loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a
lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la
persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano
Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella
fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai
Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono
per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente
presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva
l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a
Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu
importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si
recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un
luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a
coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti,
discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di
perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté
seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un
leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono
nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu
seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di
vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti
della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò
di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in
Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato,
ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta
in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai
suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io
stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un
lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in
Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una
chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di
malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato
dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare
il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il
bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che
giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi,
l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il
nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso
proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano
circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se
portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne
chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes
zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò
ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato
il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali
domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella,
anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera
dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al
destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si
portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine
celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della
rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano
consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato
in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o
macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come
i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes
zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s.
Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti
al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava
scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo
bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo
donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17
gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”,
che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i
fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente
primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una
volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta
con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli
incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più
diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è
stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo
di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono".
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