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La vita. Giovanni Palatucci nacque in Irpinia, a Montella (AV), il 31 maggio 1909 da Felice e Angelina Molinari. Laureato in Giurisprudenza e superati gli esami da procuratore legale, frequentò a Roma, presso la Scuola superiore di Polizia, un corso per vice commissario di pubblica sicurezza. Assegnato inizialmente a Genova, il 15 novembre 1937 fu trasferito alla Questura di Fiume, dove gli fu affidata la direzione dell'Ufficio stranieri con la qualifica di commissario. Dopo l'emanazione delle leggi razziali antisemitiche nel 1938, si impegnò nell'aiuto agli ebrei e a tutti coloro che, a causa dell'occupazione tedesca, si trovavano a transitare dal confine istriano verso luoghi più sicuri.

 

A migliaia furono i perseguitati da lui soccorsi, con ogni stratagemma possibile; in particolare li istradava verso il campo di raccolta di Campagna (Sa), dove era vescovo lo zio, mons. Giuseppe Maria Palatucci. La sua opera si fece ancor più intensa all'indomani dell'armistizio (8 settembre 1943) con l'occupazione militare tedesca, quando Fiume fu annessa al Terzo Reich. Nominato Questore reggente, intensificò l'aiuto, utilizzando la sua autorevolezza istituzionale. Oltre cinquemila furono gli ebrei ed i perseguitati politici salvati in quegli anni.
 

Malgrado i sospetti della polizia politica del Terzo Reich, Palatucci rimase al suo posto per continuare la sua preziosa opera, rifiutandosi fino all'ultimo di mettersi in salvo, nonostante i ripetuti inviti del Console svizzero a Trieste. Arrestato dalla Gestapo il 13 settembre 1944, fu condotto nel carcere di Trieste, dove venne condannato a morte; graziato, con la commutazione della pena, fu poi deportato il 22 settembre 1944 nel campo di sterminio di Dachau (Germania), con matricola 117826. Il 10 febbraio 1945 morì di stenti, a poche settimane dalla liberazione e fu sepolto in una fossa comune.

 

Il pensiero. "Ho la possibilità di fare un po' di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare". È quanto scriveva l'8 dicembre 1941 Giovanni Palatucci in una lettera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se non fosse che quel "po' di bene", compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempi difficili, significò la salvezza di migliaia di ebrei.

 

Di quali nobili sentimenti fosse capace il giovane, si vide subito: deludendo il padre, che lo voleva avvocato in Irpinia, Giovanni entrò nella Polizia di Stato perché, disse, "mi è impossibile domandare soldi a chi ha bisogno del mio patrocinio per avere giustizia". Quando Mussolini pubblicò "Il manifesto della razza" che, tradotto in legge (17 novembre 1938), segnò la fine della relativa tolleranza precedentemente dimostrata verso gli ebrei, Palatucci pronunciò una frase emblematica: "Vogliono farci credere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano". Una volta, sapendo che una donna ebrea era minacciata di imminente arresto, la affidò ad uno dei suoi colleghi dicendogli: "Questa è la signora Scwartz. Trattala, ti prego, come se fosse mia sorella. Anzi, no: trattala come se fosse tua sorella, perché in Cristo è tua sorella".