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Fu una permanenza travagliata:
dovette abbandonare il Paese una prima volta tra il 1990 e il
'91; fuggì poi una seconda volta, salvata da un'esecuzione,
finché nel 1996 approdò nel Somaliland, a Borama, dove fondò un
ospedale con 250 letti per malati di tubercolosi e di Aids, e
una scuola per bambini sordi e disabili. La popolazione è
totalmente musulmana: "Non c'è nessun cristiano con cui io possa
condividere – afferma al simposio –. Due volte l'anno, intorno a
Natale e intorno a Pasqua, il vescovo di Djibouti viene a dire
la messa per me e con me". La popolazione prega perché Annalena
si converta all'islam: "Me ne parlano spesso con delicatezza, ma
aggiungono sempre che Dio sa e io andrò in paradiso anche se
rimarrò cristiana".
Chiamata all'amore.
Il rispetto e l'amore della comunità locale non le risparmiano
tuttavia il martirio. Minacciata per la sua testimonianza e la
sua opera, il 5 ottobre 2003 due sicari le sparano alla testa
mentre sta rientrando. Attorno al suo corpo si forma un cerchio
di persone, per proteggerla. La portano in ospedale, ma la
ferita è troppo grave e dopo poco Annalena muore. "Sento
fortemente che noi tutti siamo chiamati all'amore, dunque alla
santità... Certo, dobbiamo liberarci di tanta zavorra. Ma ci
sono metodi pratici, sono strade, ci sono indicazioni chiare,
c'è Dio nella celletta della nostra anima che ci chiama.
Tuttavia la sua è una piccola, silenziosa voce".
Ed è questa voce che la spinge verso i più poveri.
"Impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita:
più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce,
di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo
amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura,
audacia. Questo non è un merito, è un'esigenza della mia natura.
Ma è certo che in loro io vedo Cristo, l'agnello di Dio che
patisce nella sua carne i peccati del mondo, che se li carica
sulle spalle, che soffre, ma con tanto amore..., nessuno è al di
fuori dell'amore di Dio".
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La vita.
Nata a Forlì nel 1943, Annalena Tonelli lasciò l'Italia nel
1969, con in tasca una laurea in legge e alle spalle "sei anni
di servizio ai poveri in uno dei bassifondi della mia città
natale, ai bambini del locale brefotrofio, alle bambine con
handicap mentale e vittime di grossi traumi di una casa
famiglia, ai poveri del Terzo mondo grazie alle attività del
Comitato per la lotta contro la fame nel mondo (nato nel 1963
grazie al suo impegno, ndr)", racconta nel 2001, in una
testimonianza nel corso del simposio su "Il volontariato
cattolico in sanità", organizzato in Vaticano dal Pontificio
consiglio per la pastorale della salute.
Una delle poche occasioni
in cui l'opera di Annalena uscì allo scoperto. "Partii decisa a
gridare il Vangelo con la vita sulla scia di Charles de Foucauld,
che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatré anni dopo grido
il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di
continuare a gridarlo così fino alla fine". Una vocazione
maturata in tenera età: "Scelsi di essere per gli altri: i
poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati che ero una
bambina e così sono stata e continuo ad essere fino alla fine
della mia vita. Volevo
seguire solo
Gesù Cristo. Null'altro m'interessava così fortemente: lui e i
poveri in lui".
Missionaria laica.
Laica per tutta la vita, senza una famiglia né un'organizzazione
alle spalle, Annalena raggiunse il Kenya, dove visse per 17
anni, prima impegnata con disabili motori e psichici, poi, dal
1976, responsabile di un progetto pilota dell'Organizzazione
mondiale della sanità per la cura della tubercolosi in mezzo ai
nomadi. "Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un
ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione,
senza uno stipendio, senza un salario, senza versamento di
contributi volontari per quando sarò vecchia. Sono non sposata,
perché così scelsi nella gioia quando ero giovane.
Volevo
essere tutta per Dio". Non fu facile l'inizio della sua opera in
Africa. "Tutto mi era contro allora – ricorda –. Ero giovane
(...), bianca (...), cristiana (...). E poi non ero sposata, un
assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un
valore per nessuno, anzi è un non valore".
Abbandonarsi a Dio.
Dai nomadi del deserto imparò la precarietà, consapevole di
poter perdere tutto da un momento all'altro e dover ricominciare
daccapo. "Loro mi hanno insegnato la fede, l'abbandono
incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di
fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che
è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato
a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di
Dio". Difatti, nel 1987, lasciato il Kenya, si spostò in
Somalia, dove continuò a occuparsi dei malati di tubercolosi,
"la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata in quel
mondo". |